La scomparsa di mia madre, di Beniamino Barrese

Un atto di ribellione contro il mondo e, nonostante tutto, una viscerale avversione verso qualsiasi epifania del presente che si manifesti sotto le sembianze dell’immagine.

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Mi spieghi questo progetto in cosa consiste, dunque? Consiste nell’andare in un mondo contrario a quello che ho vissuto fino adesso. Vivo in un mondo in cui tutto è delegato alla fotografia, non alla memoria. (…) A me interessa, semmai, le cose che non si vedono, non quelle che si vedono. La mia persona non è fotografabile. – Dai dialoghi del film

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La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese è una anomala, quanto originale, riflessione sul controverso rapporto madre figlio che ha occupato interi scaffali di biblioteche e continua ad appassionare chi, per mestiere, deve indagare su questa naturale relazione che più di ogni altra si carica di significati ulteriori condizionanti, mistificanti e in definitiva così totalizzanti da diventare generatori di pulsioni e nevrosi.
Barrese utilizza il cinema per scongiurare tutto quanto potrebbe accadere e, quindi un ulteriore approfondimento sul film andrebbe proprio ricercato in questo senso e, per questo sembra scorrere su due livelli. Un primo profilo è quello della ridefinizione della figura materna – ma qui si aprirebbe un inciso senza fine se si ragioni sul fatto che la madre di Barrese è Benedetta Barzini – compresa la paura dell’abbandono il che già costituisce un bell’impegno; l’altro livello sul quale il film lavora è quello del naturale metacinema che in La scomparsa di mia madre assume i profili di una autoterapia, di una autoanalisi che prevede uno sguardo senza veli sul rapporto tra i due che diventa scontro, comprensione, collaborazione, ma mai complicità in rapporto al cinema. Questo è il punto dolente del rapporto e Barrese lo fa emergere con assoluta precisione e, soprattutto, sa risolverlo con pazienza, lasciando intatta la relazione con l’avvolgente figura della madre.

Forse, a questo punto, è il caso, per doverosa informazione, di precisare chi è e cosa rappresenti la figura di Benedetta Barzini. Lei è stata una famosa top model negli anni ’60 del secolo scorso, incarnando una modernità molto ricercata e una bellezza austera che ha affascinato artisti come Andy Warhol e Salvador Dalì o fotografi come Richard Avedon e molti altri. Caratterizzata da una espressività intensa era ed è soprattutto una donna di grande carattere che ha fatto propria la cultura femminista sulla cui rielaborazione ha fondato sia la sua attività di giornalista, sia il suo rapporto con il mondo. Questa complessità caratteriale e culturale si riflette nella sua attività di docenza negli istituti superiori in cui si insegnano discipline legate al mondo della moda.
Si comprende quindi che il lavoro del giovane regista figlio non sia stato semplice, anche perché il film parte proprio dalla decisione della madre di abbandonare la vita che finora ha fatto e scomparire al mondo in un luogo da non rivelare a nessuno, senza telefono, senza carta di credito e conto in banca, senza computer, televisione e ogni altra comodità offerta dalla tecnologia. Un ultimo atto di ribellione contro il mondo che va per un verso che a lei non piace e soprattutto non le piace l’immagine, non le piace la rappresentazione del corpo attraverso l’immagine in una insanabile, ma stimolante contraddizione tra il suo lavoro passato e in parte anche presente e il suo pensiero. Il film del figlio indaga su questa spaccatura che si fa profonda che diventerà il residuo irrisolto del loro rapporto in un accomodamento del tutto provvisorio e perciò precario.
La scomparsa di mia madre, forse per questa sua natura istintiva e di ricerca di una propria certezza al di fuori del rapporto con la madre, si muove su coordinate oblique rispetto ad una confezione necessariamente ripulita da quelle impurità che solitamente si eliminano nel montaggio finale. Qui sono proprio quelle non canoniche immagini a conferire non tanto quell’aura di verità che, invece, resta una componente del tutto connaturata al film, quanto piuttosto un certo odore di intimità e di affidamento dell’uno sull’altro dei due protagonisti. Quelle immagini impure nascono dalla loro complice comunanza, dal comune desiderio di comprendere l’uno le ragioni dell’altro ed esaltano un rapporto di filiazione che vive di contrasti (ma chi è che non lo vive così?), ma integrato da un profondo rispetto dell’altrui pensiero e dalla disponibilità all’ascolto.
E vale la pena di ascoltare le parole della Barzini, madre controversa, ma ovviamente anche affettuosa e disposta a ferirsi davanti alla macchina da presa, pur di non ferire il figlio con un rifiuto. È questo suo rapporto tormentato con l’immagine a fare emergere con una certa ruvida consistenza questa sconnessione tra la sua vita interiore e quella pubblica. Dice in una vecchia intervista: Ho avuto sempre l’illusione, ma credo anche fosse vero, che nessuno mi abbia mai fotografata perché la mia faccia non è in vendita. Posso fingere, truccatissima, con le ciglia finte, con i capelli artificiali, vestiti…e io recitavo la parte di quella conciata in quel modo lì, ma non ero io. O ancora quando perentoriamente sembra volere dichiarare guerra assoluta e definitiva alle immagini: Capisco che il cinema vuole le immagini, ma le immagini sono quello che io disprezzo. In questa separazione quasi schizofrenica, viene fuori il suo carattere inconciliabile con qualsiasi mediazione e questo rimanderebbe ad un altro capitolo che dovrebbe occuparsi dell’essere e dell’apparire, nella sua esibizione pubblica e in quella privata. Il film in realtà è pieno di spunti, tanto da diventare quasi ingovernabile una sua analisi, nelle righe, necessariamente brevi di questi resoconti. La ex top model Barzini oggi rinuncia a qualsiasi appariscente visibilità, poiché non c’è alcuna immagine che la possa ritrarre, che la possa raccontare, che ne possa estrarre l’intima conoscenza e non esiste mediazione, non esista trattativa, nella viscerale avversione maturata verso qualsiasi epifania del presente che si manifesti sotto le sembianze dell’immagine.
Tutto si conforma ad una assoluta minimalità, dal disordine creativo della sua casa alla vita del quotidiano che dall’uso della bicicletta finisce con una mise del tutto casalinga per ritirare il premio delle Virtù civiche del Comune di Milano.
La scomparsa di mia madre, potrebbe diventare la comparsa di mia madre, tanto sa essere pieno il quadro di questa indagine che si estende in questo rapporto così carsico e intenso. Il finale una specie di manuale inverso dove la conciliabilità e l’adattabilità del cinema si rapporta alla narrazione. Qui diventa, nelle parole della protagonista, la assoluta negazione di ogni narrazione e varrebbe la pena di riportare i dialoghi del finale. Come in un imbuto narrativo le rispettive parole mettono alle corde l’altro protagonista.
La piena e manifesta fiction, vorrebbe la fuga di Benedetta che romanticamente scompare in mezzo al mare su una barchetta e le nuvole dall’orizzonte che avvolgono la sua esile figura, oppure che si incammina in un bosco con lo zaino in spalla.
Ma così l’immagine l’avrebbe vinta e quando mai le madri perdono? Poiché non si può spaccare una telecamera, tanto se ne potrebbe comprare un’altra, un bel tappo sull’obiettivo funziona meglio e assolve al desiderio di oscurità.
È così che tutto scompare, anche Benedetta Barzini.

 

Regia: Beniamino Barrese
Interpreti: Benedetta Barzini, Beniamino Barrese, Candice Lam, Lauren Hutton
Distribuzione: Reading Bloom e Rodaggio
Durata: 94’
Origine: Italia, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (8 voti)
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