LIBRI DI CINEMA – “Italia ultimo atto. L’altro cinema italiano”, di Fabrizio Fogliato

Il testo di Fogliato combina lucide descrizioni di frammenti di storia del cinema con riflessioni di stampo più marcatamente sociologico, alla (ri)scoperta di pellicole (ingiustamente) dimenticate.

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ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO
VOLUME 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri
di Fabrizio Fogliato
Edizioni Il foglio
pp. 463 €. 20,00

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Con il primo volume di Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano, Fabrizio Fogliato ripercorre cinquant’anni di cinema italiano attraverso le vicende storiche e i riflessi sociologici che ne hanno influenzato dinamiche e contenuti. È un testo composito quello di Fogliato, che combina descrizioni lucidissime di frammenti di storia con riflessioni di stampo più marcatamente sociologico che, fluide, si fondono talora con l’avvicendarsi di autori nascosti o, piuttosto, con le pellicole (ingiustamente) dimenticate di cineasti la cui notorietà è affiorata altrove. Prendendo le mosse da Sole (1928), film d’esordio di Alessandro Blasetti che sigla la rinascita del cinema italiano dopo il primo decennio fascista (“bel titolo luminoso italiano … l’ha ideato uno sconosciuto, l’ha diretto uno sconosciuto, l’han recitato degli sconosciuti, ed è una rivelazione” ne dice Corrado Pavolini in un articolo apparso su Il Tevere) per arrivare all’analisi, la prima, del cinema di Massimo Pirri, al quale tributa il titolo tratto dall’omonimo film del 1977 (che “ci introduce – scrive Giancarlo Grossini in Corriere della Sera – con discreta verosimiglianza nell’universo mortuario del fanatismo armato”), Fogliato attinge ad un materiale vastissimo, coevo ad opere e autori, combinando interviste, recensioni, frammenti letterari e fatti di cronaca riportati dai quotidiani.
Il punto di vista, nel quale l’Autore si cala perfettamente senza tuttavia mai perdere il distacco dell’osservatore esterno, è quello dell’ “italiano medio”, espressione, forse non degna del Testo, della quale ci appropriamo per definire quel cittadino che più di tutti intercetta (subisce?) gli effetti dei cambiamenti politici, economici e sociali che seguono convulsi gli anni del regime e della guerra mentre diventa spettatore nelle sale. L’intuizione del potenziale cinematografico negli anni del fascismo trasforma lo schermo nello strumento privilegiato di diffusione del consenso; “ tradizione e acciaio”, emblemi della modernizzazione del Paese, sono raccontati da pellicole come Treno popolare (1933), film d’esordio di Raffaello Matarazzo, che nella costruzione caricaturale dei personaggi precorre di venti anni il sarcasmo di Italiani brava gente di Ennio Flajano. Ma quel treno che negli anni ‘30 simboleggiava il progresso (essendo al contempo funzionalissimo alla messa in scena), negli anni ’40 diventa metafora della deriva post-bellica, drammaticamente incarnata da una delle peggiori tragedie ferroviarie di sempre, tristemente nota come la strage di Balvano. È una deriva che ha i connotati di una crisi d’identità sociale quella del dopo guerra, una “guerra civile asimmetrica che non prevede né vincitori né vinti” come la definisce lo stesso Fogliato. È la crisi d’un’Italia di analfabeti che parlano inglese e di ragazze madri di bambini neri; di donne che vivono l’esigenza di emancipazione come una colpa da espiare e che trovano collocazione sul grande schermo, spesso accostate ad una critica pugnace alla società borghese, in La peccatrice (1938) di Amleto Palermi, Dopo divorzieremo (1940), di Nunzio Malasomma o ancora Violette nei capelli (1942), di Carlo Ludovico Bragaglia. C’è però in embrione un impulso al riscatto di cui Luigi Comencini racconta in Proibito Rubare (1948), film che diventa metafora di tutte le città italiane in ricostruzione, dove prolifera il crimine, le istituzioni sono assenti e i confini tra lecito ed illecito labilissimi.

Del resto siamo ormai negli anni anni ‘50 e l’Italia è alle soglie del boom economico. Il

italia-ultimo-attocinema inizia ad affrancarsi dal passato per raccontare drammi più intimi e quotidiani, mentre aumenta la dicotomia tra persona e personaggio, trasformando il cinema stesso nel miraggio di un “buon posto” prima che in un veicolo di successo: su tutti, in questo senso, il film Bellissima (1951), di Luchino Visconti. Fogliato elegge Febbre di vivere (1953), di Emilio Giordana (in arte Claudio Gora), ad “oscuro e lattiginoso budello che prelude al boom economico”, dove “il motore di ogni rapporto (personale e non) è il denaro” e che vede proliferare una borghesia piccola la cui “forza è qui, in questo piccolo cerchio di snob e di affari torbidi che … riesce a dominare” (dal film Febbre di vivere). La borghesia diventa il paradigma perfetto attraverso cui raccontare, sul grande schermo, la società dei consumi di cui il Giovanni Alberti di Alberto Sordi, nel film Il boom (1963) diretto da Vittorio De Sica e scritto da Cesare Zavattini è il “figlio deforme”, tanto da arrivare, per brama di denaro, letteralmente, a vendersi un occhio della testa! La corrosione del valore della vita si traduce in corruzione, riprodotta da Mauro Bolognini, nel film del ‘63 La corruzione, collocata nell’ormai “industria” dell’editoria e da Franco Rossi ne Il complesso della schiava nubiana, contenuto nella pellicola collettiva I complessi (1965), di Luigi Filippo D’Amico, Dino Risi e Franco Rossi che affida all’interpretazione di Ugo Tognazzi i personaggi di Gildo/Guido, acronimo per Giulio (Andreotti), tratteggiando i peggiori vizi dell’Italia democristiana. La verità, per Pier Paolo Pasolini, è che il progresso si è innestato sulle macerie di una società che non ha lo spessore morale per sostenerlo e che, in fondo, non è che “una piccola strada che corre lungo il Naviglio e s’imbuca in un tunnel, sopra cui s’incrocia un’altra strada. A sinistra vecchie case sventrate, con le finestre vuote, occhieggianti, e angoli colmi d’un buio pauroso: dietro quell’ammasso di macerie, splendono le sagome di quattro, cinque grattacieli …” , questa, la sua Milano notturna mentre lavora a La Nebbiosa . Una Milano violenta, che diventa lo sfondo perfetto del poliziesco italiano anni ’70, di un Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani (“e Tomas Milian”), per intenderci, che “armato” di macchina a mano, zoom e fuori fuoco, restituisce allo spettatore il senso di una realtà frammentata.
Ma il ’68 apre anche la stagione cinematografica dell’erotismo laddove il sesso diventa veicolo per contrastare un sistema definitivamente incapace di comunicare con le nuove generazioni; oltralpe è l’anno di Helga, di Erich F. Bender ed è l’anno della sua epigone italiana, Silvia e l’amore, di Sergio Bergonzelli. E siamo arrivati, così, a Massimo Pirri. In un’intervista di Fabrizio Fogliato, Morando Morandini definisce Pirri “un coraggioso e spregiudicato esploratore di terre selvagge, un disinibito amante del cinema”; giunti all’esito del nostro scritto non parrà forse peregrino appropriarsi delle parole di Morandini per definire l’Opera di Fabrizio Fogliato, al quale siamo grati di aver recuperato, per riconsegnarcelo, L’altro cinema italiano.

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