#RomaFF12 – Dreams by the sea, di Sakaris Stora

Come rendersi conto della capacità di muoversi,se si è parte della dimensione immobile? Il film è un contrasto tra mare e terraferma, personaggi isolati in cerca d’espansione. Alice nella città

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“È come se tutto fosse fatto di pietra”. Ester (Juliett Nattestad), la protagonista del danese Dreams by the sea, finalmente riesce ad esprimere quello che dopo mezz’ora di film si poteva intuire soltanto attraverso sguardi, primi piani e silenzi. Ha 16 anni e non è mai uscita dal suo luogo di nascita nelle Isole Faroe, dove trascorre le giornate passeggiando da sola vicino al mare o cantando in chiesa, sempre accanto ai suoi religiosi genitori. Tutto ciò che la circonda sembra sospeso, fermo, come un fossile che continua ad esistere anche se è inserito dentro una pietra; il mare è l’unico cosa che rende visibile un certo senso di mobilità. Ma anche se lei si muove attraverso il suo territorio con l’inerzia del quotidiano, porta dentro di sé un disagio che la spinge a guardare oltre; c’è un qualcosa dopo la frangia alla fine del’orizzonte e lei lo sa. Forse un punto di non ritorno, oppure l’inizio della vita che ha sognato per se stessa.

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Ma come rendersi conto della propria capacità di muoversi, se si è parte di una dimensione immobile? Per Ester, il contrasto tra il mare e la terra, tra il suo spirito e quello delle persona accanto a lei, tra religione e cose mondane, è l’indizio di una dinamica possibile; l’arrivo sull’isola di Ragna (Helena Heðinsdóttir), una ragazza cittadina, tormentata e “ribelle” – l’elemento che viene da fuori a stravolgere il dentro – diventa per lei una ossessione e la prova definitiva di ciò che aveva intuito: c’è vita là fuori e se lei non avanza in quella direzione, rischia di diventare un fossile.

Dietro il film d’esordio del regista Sakaris Stora – nato e cresciuto alle isole Faroe,

Dreams-By-The-seada dove è andato via a 20 anni – si intuisce una volontà di riscatto personale, la ricostruzione di una storia persa attraverso una dimensione immaginata; il polso del presente che segue il ritmo dei ricordi, sogni e frustrazioni, dimenticati nel suo pezzo di terra sospesa. Ma questo percorso narrativo e visuale a volte si rende così criptico che diventa irraggiungibile e rischia di avere senso soltanto per lui, trovando una certa mobilità ma poi rimanendo fermo nel terreno del’intimo.

L’isolamento come luogo cinematografico che oltre l’ambito geografico si trasforma in limite morale e ideologico, e il mare come una possibilità di espansione ma anche come perdizione definitiva, è un’idea che il film lascia intravedere al’inizio, come se seguisse la vocazione di Shame di Bergman, Sacrificio di Tarkovskij oppure Breaking the Waves di Lars von Trier. Ma questa traccia si perde nella marea, nelle immagini di paesaggi quasi abbandonati che spariscono sotto la nebbia e che parlano soltanto di una bellezza irraggiungibile, per poi dissolversi in un ritmo rallentato, a volte stanco a volte quasi addormentato, che non ha da fare con la inerzia del quotidiano ma più con la ricerca costante di un senso.

Alla fine, come Ester, si finisce per voler prendere il prossimo traghetto, oppure “una piccola barca di cui nessuno sentirà la mancanza”, come propone Ester a Ragna, con il desiderio di espandersi, di uscire da quell’isola e lasciarsi andare verso il mare, anche se questo significa perdersi per sempre.

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