SPECIALE DUE GIORNI, UNA NOTTE – Ci siamo battuti bene

due giorni, una notte
Nello spaccato sociale delle storie che il cinema dei due fratelli belgi continua ad inseguire e a raccontare, l’universo della working class o, meglio, quel che oggi ne rimane, e degli ambienti in bilico sul baratro dell’indigenza, il lavoro, quello manuale, e tutta la gestualità a cui esso è legato è uno dei centri nevralgici dell’esistenza. Il gesto lavorativo è l’atto costruttivo attraverso il quale il corpo si fa verbo dell’essere al mondo

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il figlioSei disposto a perdere il tuo bonus per farmi riavere il lavoro? Nessun giro di parole, nei suoi due giorni e una notte passati a bussare di casa in casa, a chiedere ai suoi colleghi un atto di solidarietà, Sandra va dritta al punto, senza mai aggiungere nulla più dell’essenziale. E’ ormai chiaro che nel cinema dei Dardenne quel che conta non è il linguaggio parlato, i nostri personaggi appartengono ad ambienti sociali dove la retorica e la parola non sono così importanti”. Quel che conta è la potenza affermativa inscritta nel gesto.

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Nello spaccato sociale delle storie che il cinema dei due fratelli belgi continua ad inseguire e a raccontare, l’universo della working class o, meglio, quel che oggi ne rimane, e degli ambienti in bilico sul baratro dell’indigenza, il lavoro, quello manuale, e tutta la gestualità a cui esso è legato è uno dei centri nevralgici dell’esistenza. Il gesto lavorativo è l’atto costruttivo attraverso il quale il corpo si fa verbo dell’essere al mondo, non a caso allora uno dei gesti ricorrenti nel cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne è quello d’indossare uniformi e abiti da lavoro, come se la divisa fosse una dichiarazione di appartenenza, di presenza. E, proprio grazie alla sua valenza condivisa e al suo potenziale affermativo, nelle immagini dei Dardenne, il gesto lavorativo è anche il luogo dove diventa possibile stabilire un contatto con l’altro.

il ragazzo con la biciclettaNe Il figlio, attraverso la gestualità messa in campo dal lavoro nella falegnameria, la macchina da presa dei Dardenne penetra fin tra le pieghe della relazione che s’instaura tra i corpi di Oliver e Francis, il ragazzo sedicenne appena uscito dal riformatorio per l’omicidio del figlio di Olivier. La ripetizione del gesto lavorativo compiuto non solo ribadisce un ruolo al quale appartenere, mi sento utile spiega Olivier alla sua ex moglie, e, dunque, un’identità, ma è anche lo spazio dove la trasmissione del lavoro diventa il tessuto connettivo nel quale si costruisce lentamente una possibile via di liberazione dal dolore causato dalle proprie perdite e dalle proprie solitudini. Ne Il ragazzo con la bicicletta quella vicinanza che, dopo uno mese di silenzio e abbandono mai spiegati, Cyril cerca di ritrovare con suo padre e che suona come una supplica ad esser riammesso a far parte del mondo sentimentale paterno, si attua per mezzo dell’emulazione del gesto compiuto dal padre, girare la zuppa che dovrà esser servita nel ristorante dove lavora Jérémie Renier. Come scrive Alessia Cervini, “proprio nel lavoro è in gioco la possibilità che qualcosa come la vita, o l’umanità stessa dell’uomo, si dispieghi e prenda forma”.

rosettaPer questoRosetta, con il fiato corto e le scarpe buone, quelle che devono per forza portarla in una realtà diversa da quella dove ha sempre vissuto, un mondo dove non si sprofonda più nel fango, continua a camminare, senza sosta, in cerca di un lavoro come possibilità di un’esistenza al mondo che non sia solo mera sopravvivenza. Tra il nulla e la vita c’è di mezzo il lavoro, Rosetta ne è fermamente convinta, come ne è convinto il padre di Cyril, che sa di dover ripartire dal lavoro per poter ricostruire se stesso. E allora, forse, Rosetta e Sandra non sono poi così distanti, Due giorni, una notteassomiglia quasi ad un ritorno, quindici anni dopo, sulla storia di Rosetta. Di nuovo, l’impossibilità di produrre attraverso il gesto lavorativo riduce l’essere umano ad un materia nulla. Quella prospettiva destabilizzante di perdere il lavoro, che spoglia il corpo di ogni sicurezza e di un ruolo nel quale trovare una forma, porta Sandra a mettere in discussione il senso stesso della sua esistenza e dei suoi affetti.

Ma il cammino che la Marion Cotillard di Due giorni, una notte intraprende la porta ben oltre al punto in cui avevamo lasciato Rosetta. Se Rosetta, come scrivono i Dardenne, non poteva prendere le distanze dal proprio destino perché chiusa in esso, Sandra, compiendo quasi un’inversione di rotta, prova invece a riappropriarsene. Con al fianco una nuova consapevolezza che ad aiutarci a non sprofondare nel fango delle nostre solitudini non è solo il lavoro, ma anche l’amore, di due giorni, una notteun marito, di un’amica e collega, nel suo muoversi tra solidarietà, lacrime e rifiuti, in mezzo alle maglie di una classe, quella dei lavoratori, trasformata dal fallimento della sua Storia in un cadavere senza più organi, Sandra si riscopre come corpo resistente. E pur se la resistenza di Due giorni, una notte ha tutto l’aspetto dell'atto solitario di un corpo vulnerabile e fragile in un tessuto sociale sfibrato e oppresso, nel suo pellegrinaggio pieno di incertezze, paure e stanchezza, Sandra impara che nella libertà risiede la premessa stessa della liberazione e della riappropriazione di sé. Ecco, allora, che davanti alla proposta del suo capo di tornare al lavoro prendendo il posto di un suo collega, Sandra si alza chiudendosi la porta dietro le spalle. Il suo gesto di rifiuto possiede la stessa potenza affermativa del gesto lavorativo, anzi la supera, tanto da mettere a repentaglio il sistema stesso, facendo inceppare e girare a vuoto la sua macchina. E, forse, è proprio da qui che bisogna ripartire. Sarà difficile, ma ci siamo battuti bene.

 

 

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