Sheffield Doc/Fest 2020 – Lotta, fanatismo e responsabilità

Potere, corruzione, pentimento sono alcuni degli argomenti trattati nei documentari presentati nella selezione ufficiale dello Sheffield Doc Festival, che comprende materiale di tutto il mondo

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Lo Sheffield Doc Fest edizione 2020 raccoglie film da ogni latitudine, selezionati soprattutto per la delicatezza e l’importanza delle tematiche chiamati ad affrontare, di valore sociale e politico. Non fa difetto a questa presentazione Corporate Accountability (Responsabilidad Empresarial) dell’argentino Jonathan Perel, un documento eccezionale sul coinvolgimento della grande industria nei crimini contro l’umanità commessi negli anni del famigerato Processo di riorganizzazione nazionale (1976/83), la dittatura seguita alla defenestrazione di Isabel Martínez de Perón. Le inquadrature mostrano l’ingresso di ognuna delle fabbriche coinvolte nell’inchiesta, mentre una voce narrante elenca cifre di persone sequestrate, uccise o arrestate all’interno delle strutture. Basta una camera fissa dietro il cruscotto di un automobile, piazzata davanti agli stabilimenti, per creare una linea simbolica di distanza, il processo di osservazione di un potere intoccabile e perpetuo.

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La storia racconta di complessi industriali trasformati negli anni del regime in veri e propri avamposti militari, utilizzati per eliminare lavoratori scomodi, ingombranti figure di rappresentanza sindacale o chiunque provasse a disturbare l’onnipotenza di una classe dirigente connivente con i militari. Dietro la sparizione dei dissidenti, segregati e confinati in apposite camere di tortura allestite sul posto, venivano elargite ricompense miliardarie, assorbendo il debito pregresso delle aziende nei conti dello stato. Un’onta della memoria per alcuni brand conosciutissimi come Ford, Mercedes, Fiat, tutti complici nell’approfittare della sospensione dello stato di diritto, l’occasione giusta per operare dei ridimensionamenti, tagliare i rami considerati improduttivi o avviare una delocalizzazione. Il viaggio attraverso il territorio della nazione denuncia le identità scomparse dietro cancelli rimasti invalicabili, sotto un cielo plumbeo ed un’aria resa agghiacciante dalla testimonianza vocale dei massacri. Resi invisibili i volti delle vittime, soltanto evocato, l’orrore nasconde il carnefice dietro l’aspetto più innocuo, un semplice cancello d’accesso.

Indietro nel tempo, precisamente nel 1995, comincia la storia di Me and the Cult Leader (Aganai) di Atsushi Sakahara, una delle persone rimaste compromesse durante l’attacco alla metropolitana di Tokyo con il gas sarin, finito con 13 morti e migliaia di feriti. Venticinque anni dopo Atsushi, segnato a vita dal nefasto evento, incontra Hiroshi Araki, uno degli adepti di Aum Shinrikyō (Verità Suprema), gruppo mandante di questo atto criminale, il movimento religioso fondato nel 1987 da Shōkō Asahara, condannato a morte tramite impiccagione insieme ai complici, con sentenza eseguita nel 2018. I loro destini si incrociano in ricordo del tragico evento, cercando una reciproca comprensione, Hiroshi, tuttora membro esecutivo di Aleph, nei panni scomodi del fanatico, seguace di un’utopia delirante, impegnato a giustificare l’adesione ad una linea di condotta sovversiva, senza tuttavia nessuna correità diretta. Passando qualche giorno insieme, nei rispettivi mondi, attuali e pregressi, si toccano alla radici le cause, e le conseguenze delle scelte operate in passato trovano riscontro nel presente.

A modern report on the banality of evil recita il sottotitolo di arendtiana memoria, un richiamo alla fedeltà cieca (beffardamente cieco anche il santone Asahara) ad un ideale in grado di resistere, nel suo (ottuso?) rigore, a qualsivoglia tentativo di pentimento. La fine del percorso coincide al limite con un inizio. Gli argini della deriva sono tracciati nel doloroso ritratto personale di Araki, una ospedalizzazione in giovane età, la successiva malattia di un fratello, ed un rapporto familiare ormai ridotto ai minimi termini. Individuare gli aspetti critici di una vita resta comunque solo il primo passo. L’urgenza di una definitiva redenzione tocca piuttosto la parte offesa, colpevole di avere un’esistenza sconvolta dagli eventi, desiderosa di ascoltare scuse tardive e sincere, pensando, forse un po’ ingenuamente, di chiudere finalmente il cerchio. Aldilà di una impossibile conclusione, vengono fuori dal confronto imbarazzo e silenzi, indicativi più di mille parole di una collisione in atto.

Il conflitto di classe è invece alla base di Our Land, Our Altar (A Nossa Terra, o Nosso Altar) di André Guiomar, ambientato ad Aleixo, un quartiere popolare di Porto affacciato sul fiume. Quartiere cancellato dalla mappa dalle mire edilizie speculative, con il pretesto della bonifica di un’area interessata dallo spaccio di droga. Quel posto ormai non esiste più, ma nelle immagini risuonano i canti ed i volti di una comunità piena di vita, entrata in fibrillazione dopo le lettere di sfratto del comune. Le riprese coprono sette anni, tanto è servito per la progressiva demolizione delle Torri (i palazzi), l’intervallo intercorso da quel primo avviso perentorio di trovare un’altra sistemazione. Corpi scomparsi anche questi nelle maglie di un sistema corrotto. Ma non potranno sparire le amicizie, gli amori impressi sulla pelle tatuata degli abitanti, e sopra le mura palpitanti di scritte affiliate ad un sentimento.

Il contesto umile moltiplica il senso di appartenenza e lo sconforto, le lacrime ed una rabbia per l’ingiustizia subita, ed aumenta la voglia di qualche isolato gesto di vandalismo. Distruzione indice di proprietà eterna. Protagonista è ognuna delle tante anime del complesso a fortissima densità abitativa, con un età media molto bassa, è quel legame reso ancora più forte dalla disgrazia, dai cori condominiali dove le miserie individuali alzano una sola voce rotta dal pianto. L’attesa esasperante del distacco dalla propria casa si nutre della quotidianità, un cortocircuito vitale, mentre per contrasto quegli occhi continuano a brillare di una luce indistruttibile.

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