"Nowhere" di Luis Sepùlveda

Imbevuto di realismo magico , “Nowhere” resta una pagina scritta senza suggestioni, priva di sguardo e satura dell’io narrante del suo regista-scrittore

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“Un apologo sulla libertà e sulla dignità umana”: così, Luis Sepùlveda, scrittore e sceneggiatore da qualche anno attivo nel mondo del cinema, definisce il suo film d’esordio. La storia di cinque presunti dissidenti cileni tenuti prigionieri in un luogo-non luogo (“ninguna parte”, appunto) ha infatti tutti i connotati di una favola, di un’allegoria scritta (e circoscritta), imbevuta di quel realismo magico che dissolve i più sicuri riferimenti spazio-temporali e contraddistingue gran parte della letteratura latino-americana. Peccato solo che la metafora sulla condizione del popolo cileno, oppresso dalla prigionia della dittatura non riesce a costituirsi come figura metonimica. Anche dietro la macchina da presa, infatti, lo sguardo di Sepùlveda resta quello di uno scrittore e “Nowhere”, lungi dall’essere un romanzo visuale, procede sotto il segno della frontalità, con i suoi gelidi tableaux vivants e le sue esotiche scene dipinte dinnanzi a cui i corpi si animano solo se sfiorati dalla luce di un riflettore. Scevro da ogni ambizione di denuncia, “Nowhere” soffre quindi di un duplice male: se da una parte, infatti, si trascina con la pesantezza didascalica di un’opera letteraria, dall’altra non riesce a serbare le suggestioni che solo la pagina scritta riesce ad evocare, quando nelle nostre menti le parole sfogliate e sussurrate si fanno immagini e d’un tratto il nostro corpo diventa spazio fisico, teatro della rappresentazione, territorio d’ombra su cui proiettare il nostro cinema. Se accettiamo l’idea che il cinema è un’arte impura, una forma e un linguaggio che ama e necessita mescolarsi ad altre forme e ad altri linguaggi, che assorbe e rielabora impressioni e riflessioni, che viaggia nell’immaginario, precipita nel mondo e ne subisce le intrusioni, allora “Nowhere” non è cinema. Sepùlveda mette in sequenza le pagine del suo racconto, (la lettera del testo e non lo spirito come direbbe Bazin), con l’unica differenza che questa volta le sue parole sono scandite da altri, uomini e donne dalle emozioni fissate in uno script rigidamente costruito, personaggi fortemente connotati (dal punto di vista fisico, caratteriale e di classe), che non sono altri che proiezioni del suo “io” onnisciente e immanente. E tra le immagini sature di campi/controcampi in cui non c’è traccia di vita, dove la storia dolorosa del Cile resta fuori campo e lo sguardo non trova alcuna via di fuga, i dialoghi non sono che monologhi, sordi soliloqui declamati come sentenze, animati da quello spirito un po’ ingenuo di chi si sente irrimediabilmente depositario di una morale assoluta. Regia: Luis Sepùlveda
Sceneggiatura: Luis Sepùlveda
Fotografia: Giuseppe Lanci
Montaggio:Mauro Bonanni
Musica: Nicola Piovani
Scenografia: Gloria Marti, Coca Oderigo
Costumi: Fiamma Bedendo
Interpreti: Daniel Fanego (Aurelio Gonzales), Harvey Keitel (El Gringo), Jorge Perrugoria (Pedro Riquelme), Luigi Maria Burruano (Salomon Goldman),
Produzione: Surf Film, Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distributione
Origine: Italia, 2001

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