VENEZIA 63 – "Jak-pae (The City of Violence)", di Ryoo Seung-wan (Fuori concorso)

Il cineasta coreano rivela sicuramente un sicuro mestiere anche se si ha l'impressione che il ritmo sia costruito essenzialmente come accumulo di situazioni. Più riusciti e imprevedibili i flashback che mettono in luce il legame tra i protagonisti quando erano ragazzini.

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Allievo di Park Chan-wook, il trentaduenne cineasta coreano Ryoo Seung-wan prosegue sulla linea di un cinema d'azione che alterna un'accesa fisicità a movimenti coreografici quasi stilizzati. Questa caratteristica era già emersa in alcune opere precedenti come No Blood, No Tears (2002), Arahan (2004) e soprattutto l'ottimo Crying Fist (2005).

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Al centro della vicenda c'è Tae-soo, un detective di Seul che torna nella città natale per il funerale dell'amico Wang-jae. Inizia a indagare sulla sua morte e inizialmente pensa che sia stato ucciso da un gruppo di adolescenti. In realtà scopre che si tratta di un altro loro vecchio amico Phil-ho, che gestisce affari malavitosi.


Jak-pae rivela sicuramente un sicuro mestiere da parte di Ryoo Seung-wan anche se in questa pellicola sembra assente quella vibrante tensione di Crying Fist. Il cineasta coreano lascia muovere i corpi e li fa scontrare seguendo la struttura propria del cinema di arti marziali e guardando anche all'elasticità di modelli come quello, per esempio di Jackie Chan. Nelle traiettorie dei combattimenti e nella forte presenza cromatica – nel film i colori primari appaiono il rosso, il giallo e il blu – inoltre il regista sembra riprodurre alcune situazioni del cinema di Walter Hill e Tarantino. C'è un momento del film in cui il poliziotto si trova circondato da giovani che lo aggrediscono: ci sono per esempio ragazzi in bicicletta, vestiti con la tenuta da baseball o studentesse che lo circondano per strada di notte e questa situazione appare molto simile a quella di I guerrieri della notte. Il finale invece, con lo scontro finale tra Tae-so e un amico contro Phil-ho appare quasi modellato su quello di Uma Thurman nel finale di Kill Bill – Vol.1 con acrobazie che portano a una totale devastazione del set. Alla fine Ryoo Seung-wan costruisce il ritmo quasi come accumulo di situazioni, ma al tempo stesso appare più come esecutore che replica forme standardizzate del cinema d'azione piuttosto che creatore di nuove geometrie. La parte più riuscita di Jak-pae appare invece i flashback che mettono in luce il legame tra i protagonisti quando erano ragazzini che poi si rompe nel corso del tempo. Sono frammenti del passato che si trasformano quasi in visioni dall'aldilà in cui emergono imprevisti detour nello sguardo del regista coreano, segni spiazzanti che alla fine forse restano eccessivamente isolati.

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