FESTIVAL DI ROMA 2013 – Blue Sky Bones, di Cui Jian (Concorso)

blue sky bones

Cui Jian crea, in un’ora e quaranta, un oggetto affascinante e misterioso, una scheggia impazzita di kolossal, che è un’ipotesi di struttura aperta, di opera performance ininterrotta e gioiosa, dove a ognuno è lasciato il suo pezzo di bravura, la sua ribalta

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blue sky bonesNon c’è dubbio: Cui Jian, il musicista più famoso della scena contemporanea cinese, non è tipo da mezze misure. Sicuro di un’idea, di un’intuizione, ci gira intorno con caparbia determinazione, fino a sacrificare logica, ordine, equilibrio, leggibilità. Tutto in nome dell’emozione. Come se il rumore, il volume di suono fosse necessariamente il principio e l’obiettivo di ogni cosa.

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Per la prima volta responsabile unico di un intero lungometraggio, la rockstar porta fino all’estremo quella libertà formale e narrativa che aveva mostrato nel suo frammento di Chengdu, I Love You, il film del 2009 firmato con Fruit Chan. E mette in piedi una caotica e vitale sovrapposizione di ritmi e stili, per raccontare una storia familiare di quasi trent’anni, dalla rivoluzione culturale ai giorni nostri. A ricostruirla, per frammenti, suggestioni ed emozioni, è il giovane Zhong Hua, musicista e pirata, alla ricerca di un’identità complicata, di verità sepolte tra i silenzi e le amnesie. Ben oltre la facilità delle definizioni. “Mia madre è uno schianto, mio padre è una spia e io sono un hacker”: è solo l’esordio, ma la vita è ben più complessa, fatta di umori e colori diversi, che si sovrappongono, si fronteggiano, si danno il cambio senza sosta.

Il leitmotiv di tutta la vicenda è, come da definizione, una canzone, La stagione perduta, bollata come reazionaria dai rigidi controllori dell’ortodossia rivoluzionaria. La madre di Zhong Hua, “la donna più bella della Rivoluzione culturale”, cade in disgrazia per averla cantata in un’occasione ufficiale. È la fine delle speranze della giovinezza e dei sogni d’amore, la scoperta di uno scarto tra l’idea personale di rivoluzione e la linea dettata dal partito. Ma forse questo è solo l’inizio di un’altra storia. Passeranno anni, tra fughe, allontanamenti e incomprensioni. Finché Zhong Hua non deciderà di recuperare i pezzi della stagione perduta con una cover rap elettronica di quella canzone. Blue Sky Bones, appunto.

 

Cui Jian percorre quella strada rischiosa che sta tra il fallimento e la meraviglia. Contamina i generi fino al parossismo della confusione, mostra insofferenza per la chiarezza dei piani temporali e non sembra sapere dove andare a parare, come chiudere il cerchio. Il cinema, pur se “messo in mostra”, pare ritrarsi, asservirsi ai toni, ai tempi e ai linguaggi della musica, provando a inseguire, come in un lunghissimo videoclip, le differenze di ritmo tra la canzone melodica, quella aulica e l’elettronica. Ma resta il fatto che Cui Jian crea, in un’ora e quaranta, un oggetto affascinante e misterioso, una scheggia impazzita di kolossal, che, in un più momenti, ricorda il debordante The Sun Also Rises di Jiang Wen (a cui, tra l’altro, aveva collaborato). Un’ipotesi di struttura aperta, di opera performance ininterrotta e gioiosa, dove a ognuno è lasciato il suo pezzo di bravura, un istante ribalta. E quando l’immagine sta al passo con il tempo, come nella scena di danza sulle note de La stagione perduta, l’emozione è incontenibile, purissima.

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