A qualcuno piace Wilder

“La fiamma del peccato”, “Viale del tramonto”, “Quando la moglie è in vacanza”, “A qualcuno piace caldo”,”L’appartamento”, “Irma la dolce”, “Non per soldi ma per denaro”, “Prima pagina”, sono solo alcuni dei tanti capolavori di questo piccolo grande uomo del ‘900. Omaggio a Billy Wilder, scomparso ieri all’età di 95 anni

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La morte di Billy Wilder non ci ha sorpreso più di tanto. Era molto anziano, in più da qualche tempo versava in gravi condizioni di salute. Ma ciò che più conta è che il vecchio Billy già da qualche tempo non “era” più. Non si tratta semplicemente che non girasse più film ormai dal 1981 (anno di “Buddy Buddy”) ma del fatto che i monumenti non hanno età. Si stagliano solenni nei cieli alti dell’eternità e non conoscono deperimento, vecchiaia, morte. Wilder è un monumento, un simbolo incapace di venire meno rispetto ad un tempo, perché è sempre stato tempo. Non quello oggettivo del durare, ma quello filmico dello scorrere, quello assolutamente cinematografico del filmare. Fu uno dei tanti emigrati tedeschi che si trasferirono in America durante il nazismo. Pare che gli facesse compagnia Peter Lorre a dividere tristi camere d’albergo dopo aver sbarcato il lunario facendo i lavori più disparati. Poco dopo le cose iniziarono ad andar meglio per Billy: fu infatti chiamato da Charles Bracket a lavorare per delle sceneggiature. Era la fine degli anni ‘30 e uno dei primi grandi successi di Wilder fu proprio la sceneggiatura di un’opera filmata da un altro emigrante di lusso, Ernst Lubitsch per il suo “Ninotchka”, con Greta Garbo. Da quel momento in poi il giovane Billy riuscì ad inanellare un successo dietro l’altro, grazie alla sua straordinaria capacità di raccontare in modo caustico, ma al tempo stesso brillante, storie di tutti i giorni pronte a trasformarsi in cronache gustose e intelligenti di certi modi di interagire con il reale. Il suo primo film da regista “Amore che redime” è datato 1934. L’attività di sceneggiatura si conciliava d’altronde perfettamente con quella di regista e la capacità di saper far parlare un certo ambiente (quello dello spettacolo), ma anche quello della vita di tutti i giorni pareva già molto rodato. Il primo grande successo di Wilder fu quel “Giorni perduti” che con gli anni diventò un vero e proprio classico sull’alcolismo. Ray Milland fu perfetto nella parte del protagonista, ma Wilder rivelò al pubblico americano una capacità straordinaria di saper allestire una messinscena sempre in bilico tra la tragedia e lo sberleffo che pareva sempre dietro l’angolo. Ecco l’ironia quindi, arma tagliente con cui lambire la superficie di quello che sembrava un cinema apparentemente cristallizzato in perfezione di tratti e di forme. Un piccolo tocco europeo quindi, visto i natali del regista, ma forse ancor di più traccia preziosa di una volontà che non venne mai meno di privilegiare in ogni storia raccontata almeno due registri

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Dopo la fine della guerra, Wilder girò un film che già allora, appariva quasi come testamentario. Stiamo parlando di “Viale del tramonto” che possedeva tutta quella ferocia sarcastica che permeava di sé lo sguardo di un regista che in questo caso sembrò celebrare il funerale di ogni spirito ottimista riguardo le sorti del cinema. Dopo la rottura con Bracket, Wilder attraversò un periodo buio della carriera che lo portò però a dei risultati notevoli con “L’asso nella manioca” e “Stalag 17”, ambientato addirittura all’interno di un campo di prigionia nazista. Si avvicinavano intanto gli anni ‘60 e opere come “A qualcuno piace caldo” imposero definitivamente il nome del regista nel pantheon del cinema americano, ma non solo. Dando un’occhiata alla sua vasta filmografia, ci viene quasi da dire che il cinema di Wilder rappresenti oggi un po’ la quintessenza di quella Hollywood che non esiste più. Il suo stesso percorso filmico sta qui ad indicarci la strada, mostrandoci nel giro di una sola sequenza, di un solo film, di una sola immagine, le tante strade che avrebbe potuto prendere un certo tipo di cinema e soprattutto le direzioni geometriche che la macchina da presa avrebbe assunto nel tempo. Il destino della rappresentazione in Wilder non è mai stato tanto così lontano dalla chiusura ermetica di senso. Rivediamo “A qualcuno piace caldo”, “Giorni perduti”, “L’asso nella manica” e ci accorgiamo quanto fossero opere capaci di configurare al loro interno un sublime itinerario di perdita rispetto al genere in cui erano inserite. Ci viene in mente soprattutto “Viale del tramonto”, pura riflessione metalinguistica sulla sorta della macchina-cinema, sul deperimento casuale e impazzito di un corpo in preda ad una lunga metastasi. In questo senso il cinema di Wilder non ha fatto altro che cercare di occultare questo corpo già morto allora, trasfigurandolo in ricerca inesausta dei tanti, diversi modi che avrebbe avuto per sopravvivere, per sfuggire al tempo della decomposizione filmica, e quello ben più grave della smaterializzazione temporale prodotta dall’oblio, dalla dimenticanza. La macchina spettacolare appare così al suo stadio finale, è avvolta da una flagranza compositiva che non pare considerare al suo interno alcuna flessione, alcun indugio, alcun tipo di ritrosia nel continuare a girare. Eppure ci ha sempre dato l’impressione che dietro la perfezione formale di un ingranaggio tirato a lucido, covasse la dolente consapevolezza di una caducità mortale pronta a colpire uomini e cose, dialoghi (brillanti, arguti, scoppiettanti) e soprattutto situazioni. La deriva del genere che ha prodotto la lenta deflagrazione dell’apparato produttivo hollywoodiano è incominciata con Wilder, ma è soprattutto finita con lui. E con il passo stanco del fantasma di un corpo che, avvolto dalla penombra, scende dalle scale. I flash dei fotografi non ci sono più, il buio avanza, il trucco comincia a colare.
A volte la fine, non è che l’inizio.

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