#Berlinale2017 – Félicité, di Alain Gomis

Quello che solitamente fa da sottofondo alle storie principali viene messo in primo piano per dar voce ad una cantante di un bar in Congo. In concorso.

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Da certi suoni a volte si riesce a capire in quale città ci si trova. Il sottofondo acustico di una località può aiutare a comprenderne le abitudini, la cultura e l’economia. Félicité contribuisce a creare il suono del suo paese, il Congo, cantando in un bar frequentato dalla popolazione di Kinshasa. Il soul ed i canti popolari la aiutano a mandare avanti la famiglia, ma quando il figlio ha un incidente con il motorino e rischia di perdere la gamba i soldi non bastano per provvedere alla sua salute. Nasce così un tentativo di appellarsi alla comunità, che però risulta molto più complicato di quanto aveva sperato.

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Quello che attraverso la figura della protagonista Alain Gomis ha voluto mettere in scena va ben oltre i filamenti della linea narrativa principale. Félicité infatti non è in realtà un personaggio, quanto una figura che si confonde con tutto ciò che le sta intorno. Il suo apparire sullo schermo sembra un perenne stato di apatia, anche quando si attiva per cambiare lo stato di quiete delle cose si intravede il sentore del fallimento. E’ come se il suo essere in prima persona artefice dello sfondo della città l’abbia resa parte di questo senza che ne riesca veramente ad emergere. Ecco allora il susseguir

felicite 1si dei primi piani di tutti quelli che la sentono cantare mescolati ad i suoi, fissi su espressione malinconica di chi si ha imparato a stare sullo sfondo. Ed è proprio questa l’operazione più importante che il film riesce a compiere: portare in primo piano quello che solitamente costituisce il background di una storia, quello che nessuno nota. Una scelta che pone certamente alle sue basi il sentimento politico di chi non ha l’autonomia di poter essere del tutto padrone del proprio destino, di chi è abituato a dover pagare i funerali ed onorare comunque la patria. Per questo l’unico momento in cui si è liberi di tornare a fare delle scelte autonome e pure è soltanto quello onirico che il regista sa mostrare ed al tempo stesso ben dosare non togliendo nulla alla stato di realismo di cui si avvale l’intero film.

Continua però ad essere lo scorrere quieto ed incessante del quotidiano ad essere l’elemento più interessante. Nel momento in cui si prova a fare intravedere un climax in ascesa nella vita di Félicité si perde quello che non l’ha mai resa una protagonista, quanto piuttosto qualcuno attraverso cui guardare qualcos’altro. Questa tentazione si avverte in una seconda parte molto stanca rispetto alla prima, nella quale sembra che non si abbia nulla di più da mostrare. Questo vanifica solo in parte l’intenzione di rivalutare i personaggi usati come colonne sonore all’interno di un bar, che resta un’intuizione non priva di fascino.

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