CANNES 59 – "Bled Number One", di Rahmad Ameur Zaimeche (Un certain regard)

Il film ci dice qualcosa di nuovo sul cinema algerino e arabo, e si spinge nella ridefinizione sensuale e mai forzata di altri confini, quelli tra documentario e finzione. Molte inquadrature sono un passo oltre, scritte da una camera a mano quasi invisibile che osserva senza giudicare

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Né in Europa né in Algeria. E forse neppure altrove. Kamel, appena uscito di prigione, viene espulso e costretto a rientare nel suo Paese d'origine. E si trova esiliato, proprio come capitava alla famiglia del primo lungometraggio di Mahmoud Zemmouri, geniale figura storica del cinema beur, Prends dix-mille balle et casse-toi. Kamel è il protagonista dell'opera seconda del regista algerino, ma anch'egli segno espressivo della doppia appartenenza franco-algerina, Rabah Ameur-Zaïmeche, Bled number one (presentato nella sezione Un certain regard).

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Ameur-Zaïmeche è regista e attore principale e porta nuovamente sullo schermo il personaggio di Kamel, già protagonista del suo film d'esordio Wesh Wesh, del 2002. Lo sradicamento, in Bled numer one, è questione sonora, fin dal piano sequenza iniziale per le strade del villaggio, un lungo, lento movimento in avanti a scoprire squarci di ambienti, con una soggettiva che (ci) conduce immediatamente nel cuore del testo. E con la canzone di Cheb Khaled Didi, ulteriore segno di depistamento. E la voce sarà corpo fisico e straniante, visivo. Di Louisa, la giovane donna (l'attrice e cantante Meriem Serbah) la cui famiglia le impedisce di cantare (e solo in manicomio troverà, in una delle scene più intense, vestita in abito da sera, il suo pubblico, quello di veri malati di mente che Ameur-Zaïmeche filma, come gli altri volti, con intensità rapita, oltre il documentario e la finzione, con una complicità sincera e profonda). Del musicista i cui brani con la chitarra costituiscono una sorta di sensuali/stridenti intermezzi di raccordo che spingono ancora più a fondo il lavoro sul suono che si fa immagine. E del muezzin che richiama alla preghiera, elemento che Kamel ha dimenticato. E di un toro sgozzato in una festa rituale in campagna…


Bled number one ci dice qualcosa di nuovo sul cinema algerino e arabo. Come un anno fa, sempre qui a Cannes, aveva fatto Marock della marocchina Leïla Marrakchi. E si spinge nella ridefinizione sensuale e mai forzata di altri confini, quelli tra documentario e finzione. Molte inquadrature sono un passo oltre, scritte da una camera a mano quasi invisibile che osserva senza giudicare, coglie istanti di reale immergendosi anche in uno spazio del dolore e della memoria come un vero manicomio, dove un paio d'anni fa un altro regista algerino, Malek Ben Smaïl, aveva girato il bellissimo documentario Aliénations.

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