CANNES 62 – "Precious", di Lee Daniels (Un certain regard)
Il cineasta afro-americano ha confezionato un film indipendente nutrito di tutti gli eccessi e i vizi visivi di un cinema americano che si avvita su se stesso e gode della sua falsa eccentricità, qui per disegnare le tappe di un abbrutimento sociale senza fine, sprofondato in un labirinto di violenze che il suo sguardo rinchiude ancor più in una soffocante ma superficiale dimensione estetica
Su questi elementi narrativi, e di matrice metropolitana newyorkese, nello specifico Harlem, Lee Daniels (al suo secondo lungometraggio, anche se il catalogo del festival non dà traccia del suo lavoro precedente, Shadowboxer, del 2005, con Cuba Gooding Jr. e già Mo’nique, nel ruolo di una donna che si chiama Precious…, e con la cantante Macy Gray, confermando fin dagli esordi l’uso di celebri pop star black in ruoli di cinema da parte del regista, che in Precious ha utilizzato Lenny Kravitz e Mariah Carey) ha confezionato un film indipendente (ne è anche produttore) nutrito di tutti gli eccessi e i vizi visivi di un cinema americano che si avvita su se stesso e gode della sua falsa eccentricità, qui per disegnare le tappe di un abbrutimento sociale senza fine, sprofondato in un labirinto di violenze che lo sguardo di Daniels rinchiude ancor più in una soffocante ma superficiale dimensione estetica (mentre proprio attorno a un pre-testo simile, di marginalità sociale e di dure relazioni familiari, Andrea Arnold ha elaborato percorsi di puro cinema in una delle opere più emozionanti viste finora, Fish Tank). Daniels invece inanella inquadrature che il loro senso lo perdono nel momento stesso del loro apparire, fra dettagli di corpi, urla, sporcizie cromatiche e sonore.