CANNES 62 – "Precious", di Lee Daniels (Un certain regard)

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Il cineasta afro-americano ha confezionato un film indipendente nutrito di tutti gli eccessi e i vizi visivi di un cinema americano che si avvita su se stesso e gode della sua falsa eccentricità, qui per disegnare le tappe di un abbrutimento sociale senza fine, sprofondato in un labirinto di violenze che il suo sguardo rinchiude ancor più in una soffocante ma superficiale dimensione estetica

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Si chiamava Push, sottotitolo Based on the Novel by Sapphire. E con quel titolo ha vinto il gran premio della giuria e il premio del pubblico al Sundance dello scorso gennaio. Poi, il film dell’afro-americano Lee Daniels, basato sul libro di Sapphire (tradotto in Italia con il titolo Push. La storia di Precious Jones) ha cambiato nome ed è approdato a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, come Precious. Ovvero il soprannome della sedicenne afro-americana Clareece Jones (l’esordiente Gabourey ‘Gabby’ Sidibe), obesa, quasi analfabeta ma dotata per la matematica, manesca con le compagne e i compagni di classe, sfruttata sessualmente in casa da padre e madre, destinata a una scuola alternativa per il recupero dei soggetti difficili, sognatrice di un presente da diva del ballo e della canzone…

Su questi elementi narrativi, e di matrice metropolitana newyorkese, nello specifico Harlem, Lee Daniels (al suo secondo lungometraggio, anche se il catalogo del festival non dà traccia del suo lavoro precedente, Shadowboxer, del 2005, con Cuba Gooding Jr. e già Mo’nique, nel ruolo di una donna che si chiama Precious…, e con la cantante Macy Gray, confermando fin dagli esordi l’uso di celebri pop star black in ruoli di cinema da parte del regista, che in Precious ha utilizzato Lenny Kravitz e Mariah Carey) ha confezionato un film indipendente (ne è anche produttore) nutrito di tutti gli eccessi e i vizi visivi di un cinema americano che si avvita su se stesso e gode della sua falsa eccentricità, qui per disegnare le tappe di un abbrutimento sociale senza fine, sprofondato in un labirinto di violenze che lo sguardo di Daniels rinchiude ancor più in una soffocante ma superficiale dimensione estetica (mentre proprio attorno a un pre-testo simile, di marginalità sociale e di dure relazioni familiari, Andrea Arnold ha elaborato percorsi di puro cinema in una delle opere più emozionanti viste finora, Fish Tank). Daniels invece inanella inquadrature che il loro senso lo perdono nel momento stesso del loro apparire, fra dettagli di corpi, urla, sporcizie cromatiche e sonore.

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