Per la prima volta in Concorso a Cannes, il regista olandese e' al suo ottavo lungometraggio. Attore, scrittore, pittore, drammaturgo, Alex Van Warmerdam mancava dalla competizione dal 1998, con Little Tony, presentato nella sezione Un Certain Regard. Borgman racconta, con i toni di un dramma psicologico, l’implosione di una coppia facoltosa della periferia, “vampirizzata” da un misterioso personaggio, che vive sottoterra e si nutre di anime corrotte. Parabola morale sulla societa’ occidentale, in cui il cinema fa da eco, ancora una volta, con il passo cadenzato e a volte rarefatto, pur terribilmente crudele. Camiel Borgman e’ uno straccione, un barbone che all’inizio si vede inseguito da un prete con un fucile e un uomo con un palo di ferro acuminato. Vive nei boschi, nelle foreste, costruisce con il suo gruppo corridoi sotterranei da cui poter scappare e disperdersi nel mondo. Cerca come un segugio la sua prossima preda, insinuandosi nelle paure e nelle debolezze umane. Distrugge lentamente, con astuzia e ferócia, le famiglie, facendo proseliti tra i bambini. Tutta la comunita’ diabólica há una cicatrice sulla schiena, come marchio di fabbrica, che attesta l’appartenenza. Nella costruzione del suo universo, assurdo e senza scampo, il regista ricorda Bunuel, Kaurismaki; di quest’ultimo soprattutto sembra aver mutuato, in un certo senso, lo stile trasognante e catatónico dei suoi personaggi. Qualcuno, sporco e lúrido, bussa alla porta chiedendo di poter fare un bagno. Dapprima viene picchiato selvaggiamente dal padrone di casa, súbito dopo, grazie alla moglie impietosita, lo ritrovi nella vasca a pasteggiare com un bicchiere di vino.

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Chi e’ Borgman? Un sogno, un incubo, un démone, l’incarnazione dei nostri desideri più reconditi o delle paure più profonde? L’autore non da una risposta, in fondo alla storia, ma lascia diversi indizi sulla sua precaria capacita’ di coinvolgere totalmente il pubblico. Humour nero, disumanizzazioni perfidamente divertenti, sembrano smarrirsi progressivamente in ripetitivita’ e pesantezze formali, dopo un avvio promettente, in cui il mistero si teneva in equilibrio con il rivelamento dell’intreccio. Alex Van Warmerdam in effetti sembra più a suo agio nel rivelamento che negli svelamenti. Eccede nella grossolanità delle sue azioni, producento uno stridio irritante tra la quite prima della tempesta. Ricorda, a tal punto, Michael Haneke, nonostante in alcune sue opere (vedi soprattutto Amour), il regista austriaco, mostri il desiderio di fuggire dall'imbalsamazione, dall'ombra nefasta di impressionare il mondo circostante in un'unica e decadente natura morta. Alex Van Warmerdam, e quindi anche Haneke, guarda caso, sono però entrambi più vicini al genere “Vanitas”, ovvero la natura morta con espliciti riferimenti alla brevità e alla caducità della vita.   

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