Canto della terra, di Mauro Santini

Santini utilizza il materiale d’archivio per rielaborare l’esperienza pandemica, traslandola in una dimensione di catarsi spirituale

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Mauro Santini torna al Filmmaker Festival con il suo ultimo lavoro, il cortometraggio Canto della terra, che narra di un popolo esule in cammino verso una terra sconosciuta, costretto ad oltrepassare un confine, a lasciare alle spalle vite e affetti di sempre. Nei sedici minuti del corto Santini ripropone la stessa inquadratura di 38 secondi di un paesaggio di montagna, estrapolato da un filmato d’archivio in bianco e nero, che nel suo progressivo ingrandirsi, perde di nitidezza, sgranandosi. Il lavoro sull’immagine e la voce narrante dello stesso Santini in sottofondo trasformano così significante e significato, acuito dal medesimo lavoro di alterazione operato sul suono, integrato alla ripresa stessa, che diviene soggetto a sé stante, con una propria voce che riemerge come uno spettro da un altrove lontano nel tempo.

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Nato durante il lockdown, è facile riconoscere in Canto della terra una metafora del periodo pandemico, disseminato di perdite, di separazioni e distanze obbligate (“Non fu nemmeno possibile salutarsi prima del confine“, “La distanza da tenere non permetteva di darsi aiuto“). Lo spazio geografico della montagna si trasforma in dimensione metafisica di ascensione catartica e liberazione terrena, in cui anche la lingua, ibridata, diviene strumento di ridefinizione dell’ignoto. Il lavoro sull’immagine operato da Santini assomiglia a Tom, Tom, The Piper’s Son di Ken Jacobs del 1969, in cui il regista decostruisce, manipola e ricontestualizza un piccolo frammento di found footage, un film muto, dilatando immagine e durata. Ma se l’operazione di Jacobs era finalizzata a una riflessione sul mezzo cinematografico, il cinema di Santini è invece orientato allo sguardo introspettivo, alla trasfigurazione su schermo di uno stato emotivo. Per Santini il rifacimento del filmato è una meditazione sulla natura e il rapporto dell’uomo con il limite ultimo della vita umana, ovvero la morte.

Tornano tematiche care al suo cinema, come il rapporto tra tempo e memoria già incontrato in opere precedenti (Petite memoire, Di ritorno). Il frammento d’archivio assume la forma di un fermo immagine dietro al quale si cela la volontà di fermare il tempo, che si ripropone in una dimensione sospesa di incertezza e fugacità esistenziale. Il popolo esule raccontato dal voice over di Santini si trasfigura in presenza fantasmatica del presente. La migrazione di un popolo, l’attraversamento di un confine, si fanno metafora di una transizione spirituale. Santini estende il proprio sguardo a una dimensione collettiva in cui quella che fino ad ora è stata memoria privata diviene mezzo di elaborazione di un lutto comunitario.

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