"Cerco di provocare delle emozioni in chi guarda" – Intervista a Nicolas Philibert

Dopo il grande successo ottenuto in Francia esce nelle sale italiane il documentario rivelazione "Essere e avere", una favola reale interpretata da un vero istitutore e dalla sua unica classe. In occasione della sua venuta a Roma abbiamo incontrato il regista Nicolas Philibert, nei cui occhi abbiamo trovato lo stesso entusiasmo dei bambini filmati

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Nelle sue dichiarazioni si legge che non intendeva fare un documentario nel senso abituale del termine. In che cosa Etre et Avoir si distacca, ad esempio, da un documentario televisivo?

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Generalmente il documentario, nella sua forma più classica, ha un impronta fondamentalmente didattica dove il compito del cineasta è essenzialmente quello di istruire lo spettatore. Nel mio caso non si tratta di veicolare un sapere, non possiedo teorie sull'educazione dei ragazzi o sulla scuola, ma piuttosto di raccontare delle storie con delle persone che diventano dei personaggi. Cerco di provocare delle emozioni in chi guarda e credo che i miei film siano molto vicini alla fiction proprio per la loro costruzione dove è ben presente un inizio ed una fine. Questa piccola scuola che ho filmato mi ha permesso di poter dire delle cose sulla scuola e l'apprendere in generale. Il documentario diventa cinema quando va oltre i limiti del suo soggetto, quando tocca qualcosa di più metaforico, universale e simbolico.  


Qual'è stato il momento più delicato dell'intero lavoro?


Nel film ci sono alcune scene che mostrano dei bambini in situazioni fragili ed estremamente intime. Non è stato facile essere lì con la videocamera quando ad esempio Olivier parla della malattia del padre o quando Nathalie si mette a piangere. Ci tengo a specificare che quando ho ripreso tutto questo non sapevo cosa sarebbe successo. Il maestro ed Olivier hanno iniziato a parlare dei compiti ed improvvisamente il ragazzo si è messo a piangere nel parlare del padre. Non volevo essere assolutamente intrusivo ma ho comunque continuato a girare perché ho pensato che quando Olivier e Nathalie si fossero rivisti, magari anche tra molto tempo, sarebbero stati più forti proprio perché avevano già vissuto ed elaborato quella sofferenza. Anche in sede di montaggio ho riflettuto molto su cosa sarebbe stato meglio fare e quale girato conservare nella composizione finale.

Cosa può insegnare il mondo dei bambini a quello dei grandi?


Direi che i bambini hanno meno pregiudizi degli adulti, sono più aperti, più malleabili. Forse si è anche più influenzabili ma si hanno sicuramente meno barriere. Spesso quando si cresce ci si indurisce, si diventa più chiusi rispetto al mondo e agli altri. Certamente i bambini ci possono insegnare ad essere più spontanei, anche se poi tutto dipende dalla singola personalità di ognuno.


Come spiega il grande successo che in Francia ha avuto il film?


Credo che il successo della pellicola si possa spiegare con il fatto che dal film si evince un'immagine della scuola estremamente rassicurante, quasi idilliaca. E questo in un paese in cui, come sta accadendo in Francia da diversi anni, è in continuo aumento la violenza minorile rassicura molto. Viene mostrato quanto nei ragazzi sia presente una parte estremamente delicata e sensibile. Inoltre sono stato molto contento del fatto che il film sia stato reclamizzato principalmente grazie al passaparola, segno che non sempre il successo di una pellicola è legato alle operazioni di marketing che ci sono dietro.

Come ricorda il suo personale rapporto con la scuola?


Sono cresciuto in città, a Nancy, ed ho un pessimo ricordo. Ero infelice ed ansioso, i miei genitori erano costretti a cambiare scuola ogni anno. Il film ha rappresentato per me l'occasione per tornare sui banchi di scuola e di vivere la cosa in maniera più piacevole.


La sua filmografia ha affrontato delle tematiche estremamente variegate. Il documentario Patrons/Télèvision del 1979 ad esempio filmava alcuni dirigenti di grandi gruppi industriali. Come sceglie i soggetti delle sue opere?


L'idea di un film nasce spesso in me in modo inaspettato, per una serie di combinazioni assolutamente imprevedibili. A volte è sufficiente un viso od una particolare situazione per farmi avere la giusta ispirazione, per questo amo molto passare il mio tempo con le persone ed ascoltare le loro storie. A volte se si pretende di razionalizzare troppo la scelta di un soggetto non si arriva da nessuna parte. Durante tutto il lavoro, così come accade nella vita, c'è il fattore "caso" che gioca un ruolo decisamente fondamentale. Molto spesso ho la sensazione che quello di cui si ha bisogno arrivi da solo, come una necessità. E' talmente difficile realizzare un film, servono molto lavoro e molte energie, che se non si ha una necessità disperata di farlo è meglio lasciar perdere.


Con Etre et Avoir ci ha magistralmente dimostrato quanto a volte non esista una netta distinzione tra il genere documentaristico ed il cinema. I suoi progetti futuri prevedono di continuare a lavorare sul documentario oppure di dedicarsi ad una pellicola che sia esclusivamente "cinematografica"?


Continuerò a fare dei film per il cinema ma non ho assolutamente voglia di passare dal lato della fiction pura. Penso che il documentario non sia una forma di cinema minore e voglio continuare a lavorare come ho fatto finora, ossia in maniera artigianale. Non comincerò improvvisamente a girare con un'équipe di quaranta persone o dopo aver scritto una sceneggiatura di ferro. Quando realizzo dei film mi piace molto improvvisare, non sapere fin da subito come andrà a finire o quello che succederà. E' molto importante per me trovarmi nella posizione di essere sempre aperto e ben disposto verso quello che succede. Credo che il documentario sia una forma cinematografica molto particolare dove è presente comunque un ampio grado di soggettività dato dallo sguardo del cineasta.

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