FAR EAST FILM 9 – Nero Coreano

Il cinema coreano al Far East si tinge di nero: due opere prime intrise di pessimismo, due esempi di cinema che, per fortuna, ancora guardano al genere come strumento per una visione delle cose.

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In questa nona edizione del Far East il cinema coreano si tinge di nero, proponendo due titoli – due opere prime – che manifestano apertamente il pessimismo tipico del genere: No Mercy for the Rude di Park Chul-hee e Cruel Winter Blues di Lee Jung-bum. Il primo si contraddistingue sin da subito per il suo approccio ilare, quasi comico, nei confronti del sottotesto noir: storia di un killer muto (il magnifico Shin He-kyun di Symphaty for Mr. Vengeance) che sogna di diventare matador, golosissimo di pesce e accompagnato suo malgrado da un bambino vivacissimo e da una prostituta, è un film che agisce in maniera solo apparentemente subdola nei confronti dello spettatore, convincendolo di trovarsi di fronte a una commedia noir quando invece, a guardare bene, da ridere c'è ben poco. No Mercy for the Rude costruisce intorno al suo protagonista una fitta rete di macchiette e situazioni grottesche (una per tutte, la lacrimazione dovuta a un peperoncino troppo piccante scambiata per il pianto disperato di un padre), ma questo non viene mai inteso come uno scarto narrativo, come il passaggio da un registro all'altro; Park Chul-lee utilizza gli espedienti comici come scudo per affrontare l'argomento più scottante del suo paese, la violenza del mondo e della società coreana. E quando mostra il sangue, il rosso esplode macchiando ogni cosa. Non tutto funziona come dovrebbe, perchè a tratti si scorge qualche passaggio eccessivamente enfatico e meccanico (vedi la postilla finale), ma il film piace e convince egualmente. Da segnalare inoltre il curioso utilizzo della nostra Bella ciao in colonna sonora.

Entusiasmi lievemente più misurati invece per Cruel Winter Blues, cronaca dell'evoluzione del rapporto che si instaura tra un gangster e la madre della sua vittima designata. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un approccio trasversale: è un noir che si prende i suoi tempi, che imbocca digressioni inaspettate e abbandona il suo sentiero principale per soffermarsi sulle persone più che sulle loro gesta. Forse è un progetto che sulla carta possedeva una sua dimensione più compiuta, forse la lentezza a volte si traduce involontariamente in noia, e il film ne esce appesantito, come se la facilità di alcune situazioni fosse giustificata a parlare da sola; rimane comunque uno sguardo lucido e tagliente su un universo che sembra togliere qualsiasi spazio all'uomo e alla sua interiorità; e quando questo cerca disperatamente di ritagliarsi uno spazio che sia suo, le conseguenze non possono che portare a una strada a senso unico. La considerazione generale riguardo a questi due esempi è che ci troviamo di fronte a un cinema che ancora cerca di utilizzare un genere come tramite di idee e di visioni; dietro le immagini fa capolino un mondo mai riconciliato e per nulla accomodante, che brama smaniosamente di mostrare per permetterci di vedere, ricordandoci così che gli occhi sono l'unica cosa che davvero ci rimane.

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