George Roy Hill – il '68 e Bacarach

George Roy Hill è morto, e con lui probabilmente tutta quell'aura sottilmente innovatrice che si era sempre portato dietro nelle sue opere, persino quando con “Butch Cassidy” anticipava di fatto il '68 investendo il western con un tono allegro e provocatorio destinato a fare epoca.

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La Stangata (1973) è uno di quei film indimenticabili. E non perché sia un gran film, un capitolo importante nella storia del cinema, o chissà cos'altro. Semplicemente per il fatto che La Stangata è la Stangata. Ballo di ladri in grande stile, accompagnamento ricorrente di tante serate della nostra infanzia in cui ci si divertiva davanti a questo geniale rimescolamento di buffoneria malinconica e andamento ribaldo di senso. Opera molto scritta, sin troppo forse, eppure in grado specialmente oggi di rileggere buona parte della Hollywood anni '70 in chiave quasi parodistica, sicuramente con delle intenzioni metafilmiche allora forse poco analizzate. In fondo George Roy Hill è stato la stangata, ma anche Butch Cassidy e Billy The Kid, e qualche altra opera interessante che però hanno visto in pochi. Il ritmo di questi suoi film è allora ritmo del cuore, intermittenza nostalgica e soave di un cinema che oggi non esiste più. Roy Hill muore e con lui probabilmente tutta quell'aura sottilmente innovatrice che si era sempre portato dietro nelle sue opere, persino quando anticipava di fatto il '68 investendo il western con un tono allegro e provocatorio destinato a fare epoca. George Roy Hill era nato nel 1922 a Minneapolis. Da piccolo passava intere giornate al Cedar Airport in cui intratteneva lunghe chiacchierate con i piloti, molti dei quali reduci dalla prima guerra mondiale. A sedici anni comunque George riesce a conquistare il brevetto di volo. Dopo il diploma in una scuola privata del Midwest, studiò musica a Yale sotto il controllo del compositore Paul Hinfdemith. Dopo la laurea nel 1943, entrò nei Marines, in cui fu impiegato coma pilota militare nel Pacifico del Sud. Finita la guerra, George cominciò a dedicarsi alla sua prima, grande passione: la recitazione. Prima insieme a degli attori shakesperiani in Irlanda, poi, tornato negli USA, come regista per la televisione.

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 Nel 1957 arrivò a dirigere una serie di fortunatissime commedie per Broadway, fin quando nel 1962  esordì al cinema con la sua prima regia, Rodaggio matrimoniale con Tony Franciosa e Jane Fonda, tratto da una piece di Tennesse Williams. E' un esordio promettente, se non altro capace di affrontare un testo abbastanza impegnativo con un'aria scanzonata, ironica, leggera. Ne La porta dei sogni si tratta di gestire l'estro mattatoriale di Dean Martin, ma non si va al di là di un testo comunque adattato bene. Prima di arrivare al grande successo mondiale di Butch Cassidy, fu la volta di Hawaii (1965), opera controversa, ostacolata in mille modi forse a causa della scrittura pericolosa di Dalton Trumbo, sopravvissuto all'era maccartista. Fatto sta comunque che Hill subentrò alla regia a Zinneman e non riuscì ad imporre il suo sguardo, se non in qualche frammento sparso di visione, forse sfuggito alle forbici taglienti dei censori. Gli stessi che non riuscirono a  fare nulla per evitare l'improvviso detour del western in territori quantomeno insoliti, rischiarati da una precisa volontà di rileggere buona parte della mitologia americana in chiave volutamente farsesca, angli antipodi insomma della glorificazione a tutti i costi. Butch Cassidy allora (1967) in cui le gesta dei due famosi banditi (interpretati da Paul Newman e Robert Redford in grandissima forma) non erano altro che una sorta di pazzo specchietto per le allodole, quando invece si andava al lavorare di fino su un certo modo di leggere l'istantaneità del mito sulle carni ancora fresche di corpi filmati molto diversamente rispetto al periodo. E' un'opera picaresca, un viaggio lungo i confini labili del tramonto di un'epoca, la voglia filmata al suo stato nascente di evadere dai confini di un genere, di un mondo, di uno sguardo, per farsi girotondo inebriante di vita, corsa appassionata in bicicletta sulle note memorabili di Bacharach, ultimo passo prima di sprofondare nelle acque melmose del progresso. Hill non si nasconde dietro un dito, non accantona nessun alibi nella politicità del suo girare, ma fa del buon cinema, capace di contemplare ancora al suo interno delle aperture di senso ancora oggi invidiabili. E poi ci sono delle sequenze (come appunto quella di Newman in bicicletta) che valgono come momento storico di un'intera epoca più di cento film del periodo costantemente aggiornati a quel preciso momento di rottura. Se Sarafian da lì a poco avrebbe filmato la vastità in assenza di sguardo (il che significa inizio di una vera e propria pratica di decolonizzazione intellettuale e perché no filmica) di scenari immensi e Pollack avrebbe riflettuto sulla ripresa di un certo cinema di denuncia nato però proprio delle retrovie addormentate del secolo scorso (sempre di western si trattava), beh, il merito è del pioniere Hill, uno dei pochi in quegli anni ad aver capito che la politica al cinema non si fa documentarizzando "un'oggettiva"  ripresa del reale, ma reinventando proprio da queste insulse macerie uno sguardo che faccia tabula rasa di tutto il resto.

La stessa cosa che accade in Mattatoio n°5 (1972) tratto dall'omonimo testo di Kurt Vonnegut, in cui per l'appunto il movimento del protagonista è proprio contenuto all'interno della re-invenzione di un certo modo di stare al mondo. Visualizzare le allucinazioni di Vonnegut non era facile, ma Hill sta al gioco, filma il presente come il passato, la fantasia come lo stadio più avanzato della verità, e immortala il suo Billy (il protagonista) nel pantheon di quegli allucinati corpi incapaci di adattarsi (o chissà, ri-adattarsi dopo la visione) alla normale ordinarietà delle cose. Stesso discorso per due grandi opere del regista (sia pur semisconosciute) che sono Il temerario e Colpo secco, in cui, servendosi dei suoi due attori feticcio (Redford per il primo, Newman per il secondo), Hill rispolvera l'ambiguità lucente delle sue opere migliori, trasformando il mezzo filmico  in dispositivo per certi versi assolutamente classico, dall'altro già inquinato dalla scorie di una modernità che esce fuori come dato puramente marginale. Tanto la lingua del cinema è sempre la stessa, e forse, già in quegli anni, Hill andava riflettendo con un tono forse più amaro del passato, sulla stagione che lo aveva visto protagonista indiscusso. Gli anni '80 del regista sono rappresentati da Il Mondo secondo Garp (1982) in cui peraltro esordì Glenn Close e dal suo ultimo film del 1988, L'allegra fattoria, segno tangibile che il cinema di Hill è proprio quello racchiuso nelle maglie incantate di quel magico decennio 1968/1978. Officina formidabile in cui raccontare non il passato dei corpi, ma il loro futuro, azzerando l'orologio del tempo filmico, strapazzando la mitologia cartolinesca, e soprattutto classicizzando fuori tempo massimo/consentito le spoglia ardenti del genere. La stangata ha vinto sette premi oscar, è il manifesto di Hill, molto uguale, molto diverso rispetto a Butch Cassidy. Lo abbiamo dimenticato nella nostra galleria, ma il nostro è un lapsus volontario. Dare resoconto di una sublime porta della memoria come questa è un gioco a cui è difficile abituarsi. Eppure i conti tornano. 1973/2003. In coda, una prospettiva che si stringe.

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