Il corpo (intra)visto: OLIVIA, di Michele Moccia

Quante volte il nostro animo si è abbandonato al nostalgico fluire dei ricordi, rivivendoli, belli o brutti che fossero, nel loro riflettersi memoriale, soffrendone l'incompletezza o sostenendone a stento la trasparenza. Altre volte, invece, l'animo si è lasciato rapire dal lungo improvviso malinconico trascorrere dei sogni, per conservare desideri o rivivere speranze tradite. Con noi in mezzo tra il ricordare, in cui i sentimenti e le emozioni rievocate fanno aderire il loro vissuto al nostro essere nel presente e il sognare, come evasione dalla realtà, ma anche per sfuggirsi, ricercarsi, riguardarsi assenti da essa. Sentirsi in mezzo tra il desiderio ossessivo che il passato sia ancora per il presente e il sogno come aurorale epifania di uno sguardo interiore. Nel sogno, in questa memoria tutta soggettiva, ci si può facilmente avvicinare o allontanare dalle cose, cancellarle o possederle. Un sogno lungo… quanto? Quanto basta perché in esso ci si possa cercare, inseguire, sentire meno soli, meno diversi, amanti, amati, fingersi, anche, trasportati altrove da un piacevole motivo musicale e catturare con lo sguardo la bellezza di due gambe che si muovono danzando. Meravigliosa ambiguità del sognare, essere altrove pur restando immobili, come nel chiuso della propria stanza. Ancora. Sognare per sopportare una lunga ed estenuante attesa, si, perché assente è sempre l'altro, non io che aspetto, allora il mio sogno di te non è finito. Sognare ad occhi chiusi/aperti, inganno o seduzione di un oscuro oggetto del desiderio, quante trattative truffaldine con la propria coscienza. Ma, soprattutto sognare nel disperato tentativo di sottrarsi all'immanenza del tempo.

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Ma il corpo. Il corpo non si può cercare solo idealizzandolo nel sogno, come non avvertire la limitante possibilità di viverlo nella propria illusione, annullandone la presenza, nascondendone ed evitandone la stessa fisicità. Invece… i corpi hanno bisogno di toccarsi, incontrarsi, affascinarsi, di avvertire ed esprimere anche i loro umori, le loro impurità fisiche, le loro gioie, le loro ferite, le loro diversità, la loro solitudine. Olivia, il cortometraggio di Peter Marcias è tanto generoso quanto fastidioso, fastidioso per la generosità con cui, in esso, si illude il corpo alla possibilità di un incontro altro nel territorio immaginifico del sogno, desiderio di essere ai bordi della vita, riflesso metonimico del proprio (ir)reale rapportarsi ad essa, inconsapevoli che si perde qualcosa di sé nel darsi e non nel donarsi. Donarsi come atto di fiducia verso gli altri e quella vita, tante volte, ossessivamente evitata, senza dimenticare di poter guardare, talvolta, le cose da una prospettiva diversa, mettendosi, anche, a testa in giù come Jean Dasté o lasciandosela vertiginosamente girare, la testa, come fanno i fraticelli di Rossellini per trovare la propria strada. Chiudersi alla vita, evitare di mostrarne le ferite, scoprirla soltanto di scorcio, accresce quel senso di disagio e di frustrazione che si avverte nel tentativo di volere a tutti i costi sottrarre alla vista i corpi attraverso il sogno, spogliarli del loro essere contingenti. Eppure, il tempo è l'unica cosa che ci appartiene, in esso si radicano gli elementi concreti del vivere, acquista senso il nostro perseverare, ma, spesso ci si rifiuta di vivere guardandolo passare.


Nel tentativo, che è il sogno, di distogliere lo sguardo fisico dall'esterno rivolgendolo in se stessi per essere al sicuro, matura quel bisogno ambiguo di vedere, ma anche di nascondersi. Il cortometraggio del giovane Marcias, in parte, comunica questo sinuoso senso di inquietudine, riflesso di un occhio che ha visto, ma che sogna e si sogna trasfigurato in un altrove (il)limitato, che rimuove l'importanza del corpo, accettandone con difficoltà i limiti. D'altra parte, in Olivia, è questo rilievo onirico a far trasparire, quasi per ambiguità, lo sforzo di restituire all'uomo la dignità dei suoi gesti e la consapevolezza del sogno come momentaneo e malinconico fuggire dalla realtà, infatti, c'è il tempo per un'ultima, significativa inquadratura quella in cui la protagonista, disabile, si spinge con la sua sedia a rotelle verso l'esterno.


 


Michele Moccia

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