Il "tradimento" dei generi – note su alcune recensioni di Sentieri selvaggi

"Insomnia", "One Hour Photo", "Red Dragon", "El-Alamein". Le tappe successive e diverse di un cinema ingannatore, che affronta I generi per depistarli, dove l'esibita cinefilia si trasforma in uno sguardo invasivo che nega vita propria ai corpi.

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Sostanzialmente gran parte delle recensioni che appaiono su "Sentieri Selvaggi" rispecchiano, più o meno fedelmente, l'orientamento critico della rivista. Esistono ovviamente anche delle eccezioni. Nella storia della rivista capita con alcuni redattori e collaboratori di dividersi, discutere, scontrarsi, essere spaccati a metà. Lo speciale su Il favoloso mondo di Amélie di Jeunet è forse l'esempio recente più visibile di questa tendenza ad accendere, a stimolare il dibattito. Ultimamente, soprattutto dal mese di agosto, si sta tentando di recensire quasi tutto quello che esce in sala e, soprattutto, si sta tentando di pubblicare le recensioni con estrema velocità (possibilmente coincidente con l'uscita del film in sala). Ovviamente, al gruppo redazionale storico, questa pratica (strettamente necessaria, soprattutto in un aggiornamento quotidiano su Internet) provoca qualche scompenso. Innanzitutto alcuni film, anche importanti, vengono visti in ritardo e può accadere che il giudizio sia diverso dalla recensione pubblicata.

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Senza entrare nel particolare, ciò che preme sottolineare in questo editoriale è la tendenza di certo cinema, in parte hollywoodiano, che tradisce se stesso tradendo il genere. Non si tratta di quei tradimenti straordinariamente consapevoli stile Nouvelle Vague o quelle sublimi/false contaminazioni di cineasti come, tra gli altri, Nicholas Ray, Jonathan Demme o Brian De Palma. Opere come Insomnia di Christopher Nolan, One Hour Photo di Mark Romanek, Red Dragon di Brett Ratner e, caso a parte, El-Alamein di Enzo Monteleone, producono questi depistamenti, appesantiti da uno sguardo ridondante su ogni corpo e dettaglio e su un'esibizione di stile che, alla fine, gira inutilmente attorno a se stessa.

Insomnia, innanzitutto, set canadese che elimina l'oscurità per farsi abbaglio, per tenere i protagonisti in quella persistente condizione di "eyes wide shut"/occhi chiusi aperti. Su Nolan era già lecito diffidare fortemente dopo Following e soprattutto Memento. Alle prese con un cast di prim'ordine, dove però resta grandissimo solo Al Pacino mentre Robin Williams sembra fare la caricatura, in un ruolo di segno opposto rispetto quelli sospesi tra malinconia e gioco che solitamente ha interpretato, Nolan carica all'eccesso inquadrature vuote, basate su un accumulo visivo/sonoro in cui si intravede un fastidioso narcisisismo e un'insopportabile equibrilismo visivo. Nolan nega a personaggi già costruiti nella scrittura una vita propria, li contamina con uno sguardo che spezza continuamente le loro traiettorie e gli toglie il proprio "ultimo respiro". I continui stacchi di montaggio, con immagini/flash dei delitti (come in Memento) hanno forse lo scopo di creare ritmo ma in realtà lo disperdono, e soprattutto alterano le prospettive di immagini che non diventano mai soggettive ma neanche proiezioni di una memoria rimossa. La presenza invasiva del cineasta è soprattutto presente nella sequenza della nebbia, dove Al Pacino uccide il collega Martin Donovan. L'effetto di Nolan in questo caso distrugge perentoriamente il tentativo della creazione di un'atmosfera. La nebbia che avvolge e nasconde i corpi resta infatti subordinata a effetti sonori come il rumore del megafono, i passi dei protagonisti, gli spari.

One Hour Photo porta invece alla deriva la presunzione di un cinema che si spaccia come indipendente, che ruota attorno sempre a limitatissime locations come per giustificare il presunto low budget (il grande magazzino dove lavora il protagonista, un addetto che lavora in un negozio che sviluppa fotografie; le abitazioni del protagonista e della famiglia da lui presa di mira). La materializzazione di un'ossessione diventa puro pretesto per un voyerismo appariscente (le immagini delle numerose fotografie scattate nel corso degli anni) e soprattutto amplifica un "cinema della crudeltà" che mortifica gesti d'affetto, tentativi di integrazione, caricando con violento cinismo l'alienità di Robin Williams (un Mork di segno contrario) che accumula rabbia per disperderla poi dentro una stanza d'albergo dove si sta consumando l'ennesimo adulterio.


Per Red Dragon, pre-quel de Il silenzio degli innocenti, si prova ad analizzarlo senza tenere conto dei raffronti troppo impari con il film di Demme ma anche del grande Michael Mann di Manhunter. Ratner però lascia continuamente in agonia personaggi già esistiti. L'horror perde le sue tracce in personaggi secondari che perdono ogni forma di ambiguità nel loro pallido schematismo (l'investigatore del Fbi interpretato da Norton o il suo imitayore incarnato da Fiennes), lasciando le atmosfere torbide del romanzo di Thomas Harris. Escluso il dittico di Rush Hour (sicuramente migliore però è il secondo episodio, Colpo grosso al drago rosso), Ratner è un insignificante esecutore che riduce icone dell'horror contemporaneo a ridicole caricature (certamente responsabile è anche Hopkins a partecipare al degrado di uno dei suoi personaggi più celebri), circondati da fasci di luce, prospettive, corpi che diventano soltanto materiale profilmico solo da filmare, mai da ricomporre.


El-Alamein infine ricostruisce storicamente le fasi della ritirata dell'esercito italo-tedesco tra il 23 ottobre e il 1° novembre 1942. Pur avvalendosi di interpreti misurati e caratterizzando la prima fase del film con la presenza di un nemico che non si vede, Monteleone poi scade in un descrittivismo geografico che si combina con un apparente minimalismo, ma che poi sfocia nell'esibizione di un'azione tanto roboante quanto maldestra, accecante ma priva di ogni bagliore, dove c'è sempre un'inquadratura di troppo (il suicidio di Silvio Orlando), un dettaglio troppo insistito in un cineasta che vuole spiegare sempre troppo narrativamente per giustificare la pochezza visiva e un senso di abbandono persistente che però non coinvolge minimamente. Agli antipodi dell'immediatezza rosselliniana e soprattutto di quel suo profondo senso di totale libertà.


Ad eccezione di Red Dragon, i film di Nolan, Romanek e Monteleone, appaiono come i segni contrari e uguali di un cinema ruffiano nei confronti dello spettatore, che lo prende per mano facendolo credere anche intelligente ma che alla fine inganna. Un cinema impuro, artificioso, senza cuore, dove si vedono i segni di una costruzione programmatica e irrimediabilmente chiusa.

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