"Le fils de Marie", di Carole Laure

La morte è assenza, e filmare l'assenza non è cosa da poco: l'esordiente Laure mostra i suoi nuovi figli con sguardo naturalistico, vicino all'estetica del Dogma, attraverso un digitale che ricorda spesso l'intimità delle riprese amatoriali.

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La stanza del figlio, Il figlio, Le fils de Marie: l'ombra della morte inattesa – la morte di un ragazzo – aleggia spesso nell'aria illuminata dal fascio di luce del proiettore, in questo nuovo secolo o millennio che sia; ed anche il precedente ci salutava con un lutto giovanile, quello di Tutto su mia madre. La morte è assenza, e filmare l'assenza non è cosa da poco, specie quando si voglia abbandonare la tentazione di ironizzare sull'imperscrutabile. Se nei film di Moretti e dei Dardenne il punto di vista era maschile (soprattutto, se non soltanto), ne Le fils de Marie – come nel film di Almodovar – la dolorosa ricerca di una compensazione alla voragine che il silenzioso boato della morte lascia dietro di sè è compiuta da una madre. Che, sola, vede nella sua testa la proiezione continua di un film, il montaggio di brani di storie di tutti i giorni interpretate da questo ragazzo scomparso nel nulla, campi lunghi e figure intere e piani americani e primi piani e dettagli, tutti centrati su di lui, quel figlio che prima c'era e ora non c'è più, quel ragazzo che a noi spettatori non viene mostrato mai, neanche in fotografia, neanche in sogno, ma la cui presenza si avverte per sottrazione, per analogia, in quelli che sono i segni del suo breve passaggio su questa terra: gli oggetti che lo circondavano, che riempivano la sua stanza – la stanza del figlio, satura della sua essenza vitale, immagazzinata in oggetti tanto inerti quanto incandescenti per l'energia impressa loro dall'essere stati toccati da quelle mani, da quel corpo che non è più. Marie – la stessa Laure – mette un annuncio su un giornale: "Madre che ha perso il figlio cerca figlio che ha perso la madre"; spera così che la morte di un sedicenne possa trovare una risposta di qualche valore, possa restituire un senso immediato, un ordine naturale alle cose. Rispondono quattro ragazzi molto diversi tra loro; quattro anime che la regista invita a considerare come differenti parti di sé: Martin, ottenebrato da un padre violento e coercitivo; Victor, immobilizzato nel corpo – dopo che nella mente – dalle barriere difensive che la sua obesità ha eretto; Alex, "artista" che vive sul confine sottile tra liceità e dannazione; Paul, vero borderline dalla facciata "normale". I quattro iniziano ad entrare ed uscire dalla vita di Marie, e assieme a lei esaudiscono i bisogni di relazione fisica e psicologica che madri e figli soddisfano giorno per giorno. I loro corpi si manifestano, poi si avvicinano, poi entrano in contatto con quello di Marie/Carole: che li avvicina, li contatta, li mostra con sguardo naturalistico, vicino all'estetica del Dogma (dichiarata – anche se non rispettata – dalla presenza nella troupe della coppia "french dogma" Barr/Arnold), con un digitale che ricorda spesso l'intimità familiare delle riprese amatoriali. Non la fredda luce della camera mortuaria morettiana, cancellata solo dalle sfuggenti luci autostradali e dal sole di un nuovo giorno; non l'incombente assedio del falegname ferito dei Dardenne, nella claustrofobica sacralità di un'officina: la Laure risponde subito alla morte uscendo allo scoperto, abbattendo le proprie difese, rischiando tutto per ritrovare l'amore perduto.

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Titolo originale: Le fils de Marie
Regia: Carole Laure
Sceneggiatura: Pascal Arnold, Carole Laure
Fotografia: Pascal Arnold
Montaggio: Hugo Carvana
Musica: Jeff Fisher Desjardins
Scenografia: Frédéric Page
Interpreti: Carole Laure (Marie), Jean-Marc Barr (Paul), Félix-Guy Lajeunesse (Martin), Danny Gilmore (Alex), Daniel Desjardins (Victor)
Produzione: Laure-Furey Prod., Toloda
Durata: 97'
Origine: Canada, 2002

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