LETTE E…RIVISTE – Alle spalle della realtà: intervista ai fratelli Dardenne

L'ascetismo visivo e la ricerca di spiritualità tramite la materia, il lavoro sull'attore e sulla sua fisicità, il silenzio e la parola. In occasione dell'uscita de "Il figlio" negli USA, “Cineaste” dedica ai Dardenne una lunga intervista, di cui vi proponiamo un estratto.

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Cineaste: Perché ci sono così tanti silenzi e così poca azione nei vostri film?

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Jean-Pierre: In effetti, Il figlio è un film sulla difficoltà di parlare: Oliver ha difficoltà nel dire "è mio figlio che hai ucciso", e Francis non riesce a dire quello che ha fatto. Siamo più interessati a cercare di dare significato a una scena attraverso il modo in cui filmiamo le relazioni tra i corpi dei personaggi e i gesti che un personaggio compone – come passa a un altro una tazza di tè, come versa il caffè nella propria tazza. Questo è più interessante che non presentare le azioni come pretesti per parlare. Le parole vengono dopo, quando non si può fare altro. In generale, credo che si parli troppo nei film; è facile da fare. Ma perché stipare un film di chiacchiere?


 

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Cineaste: Considerata l'enfasi che date ai gesti dei personaggi, usate delle tecniche speciali quando lavorate con gli attori, in modo da ottenere da loro ciò che avete in mente?


Luc: Sul set non parliamo con gli attori del perché debbano fare questo o quello. Niente spiegazioni psicologiche sul perché questo agisca in un certo modo. Di certo gli attori hanno le loro opinioni; compongono il proprio film nella loro mente. Nelle occasioni in cui un attore cerca di parlarci a proposito di queste opinioni, cerchiamo di contraddirlo in modo da mantenerlo leggermente in stato di squilibrio. Ciò che facciamo con gli attori è anche molto fisico. Il giorno in cui iniziano le riprese non ci sentiamo obbligati a fare le cose esattamente come erano state durante le prove; fingiamo di ripartire da zero in modo da riscoprire le cose che abbiamo fatto in precedenza. Le indicazioni che diamo agli attori sono soprattutto fisiche. Iniziamo lavorando senza il cameraman. Soltanto gli attori, mio fratello ed io. Li facciamo procedere lungo i vari blocchi, prima uno poi l'altro, provando diverse versioni. [Gli attori] dicono ma non recitano le loro battute. Non diciamo loro quale dovrebbe essere il tono delle loro battute; diciamo soltanto che si vedrà una volta messa in moto la telecamera. A questo stadio non c'è il cameraman, non c'è il tecnico del suono, né le luci. Dopo sistemiamo tutte le telecamere con esattezza e il ritmo della scena, che è generalmente una lunga ripresa. Fare questo ci permette di modificare i movimenti degli attori o un qualsiasi altro dettaglio. Poi iniziamo e gli attori dicono il loro dialogo per la prima volta. Se una battuta non è recitata esattamente come la vorremmo, non diciamo "No, la devi dire così". Ma piuttosto "Non così, aspetta". Chiediamo sempre meno, meno, meno, più neutrale, più vuoto. Cerchiamo di commentare in una maniera negativa e fisica in modo che gli attori possano apportare essi stessi qualcosa al processo.

Cineaste: Ci colpisce il fatto che i vostri personaggi corrano tanto. Sembrano sempre di fretta, e la camera li segue sempre da dietro.


Jean-Pierre: Beh, poiché non potrò mai essere spettatore come lo sei tu, vedo le cose da un'angolatura diversa; e personalmente ho un'altra impressione. Sento piuttosto che Il figlio è più che altro una questione di attesa. In Rosetta, c'è la fretta verso qualcosa che lei vuole – un lavoro. Tutto quello che fa deriva dalla sua volontà di avere, di essere, di esistere, di correre, e la camera cerca di stare incollata ai suoi passi. Ne Il figlio è più una questione di attendere una parola che dovrebbe essere pronunciata ma non arriva, e di vedere che cosa farà Oliver. Nemmeno Oliver lo sa. […] Osservare da dietro. Piuttosto vero. Forse quando ci sono più vedute del solito alle spalle di una persona, quando poi vedi il suo viso, lo guardi veramente – molto di più che se l'avessi visto per tutto il tempo.


Luc: Abbiamo ripreso Oliver da dietro per molte ragioni, in realtà. Non molto tempo fa ho visto una foto scattata da Dorothea Lange che credo suggerisca una di queste ragioni. La foto mostra una donna di colore, forse di settanta o settantacinque anni, seduta su una panchina, probabilmente in un parco o una strada di New York, e la vediamo da dietro. Ho avuto la sensazione – molto soggettiva- di strare osservando la sua intera vita dal di dietro, nel retro del suo collo. Guardarla da questa angolazione mi ha dato l'impressione di una storia, forse una storia di sofferenza. Eccola li che guardava il mondo davanti a lei e dietro, alle sue spalle, c'erano le tracce della sua intera storia. C'era il mondo di oggi e il personaggio al di fuori con la sua storia particolare che il mondo non nota, ma noi la percepiamo perché siamo dietro di lei. E mi sono detto che Oliver è molto simile. C'è l'intera storia di suo figlio – che noi non sappiamo quando il film comincia; ma osservandolo da dietro vediamo qualcosa di privato e assolutamente personale. Tuttavia, è qualcosa che lui non può vedere perché è alle sue spalle.

Cineaste: Nei vostri film vediamo molti personaggi provenienti dalla working class e che davvero si dibattono per un lavoro. Potreste fare un commento sulle posizioni socio-politiche che vi hanno portato all' interesse per la descrizione di questi personaggi?


Jean-Pierre: Allora…potrebbe derivare da posizioni socio-politiche, ma dipende anche dalla nostra posizione come cineasti. Fare un film è anche un piacere, è divertente. E anche se è al contempo un lavoro, nessuno ci impone di farlo. Devi fare cose che vuoi fare, e ci sono cose che hai voglia di filmare più di altre. Non devi soltanto essere interessato a riprenderle, ma anche essere in grado di trovare un certo elemento di passione e desiderio nel processo.


È vero che i nostri personaggi appartengono alla working class, o a quella che era la working class. […] La working class non è più la stessa. Non è più strutturata come lo era all'inizio del secolo scorso. Siamo davvero alla fine di un'era, nell'industria, di quello che abbiamo visto per cento anni. Forse a livello immediato, è perché abbiamo vissuto una parte delle nostre vite all'interno di questo stesso tempo che abbiamo deciso di filmarlo e di ancorare le nostre storie attorno a questi personaggi de-classati. Se i nostri personaggi fossero appartenuti agli anni Venti o agli anni Trenta non li avremmo filmati allo stesso modo. Né avremmo raccontato la storia di un ex lavoratore che diventa sfruttatore di lavoratori stranieri. Un personaggio del genere non appartiene agli anni Venti o Trenta; appartiene a un periodo in cui le strutture sociali stanno diventando destrutturate. In questi tempi vedi persone che sono un po' perse, che cercano di sfruttare quelli che stanno peggio di loro; persone che, come Rosetta, cerano di sopravvivere.


Il figlio è più astratto perché Oliver è qualcuno che è a contatto col lavoro manuale. Questo tipo di attaccamento esiste, in modo piuttosto forte, nel posto da dove veniamo. Anche Roger, che sfrutta il lavoro degli immigranti, lavora e si sporca le mani – anche se si tratta di seppellire qualcuno. [..] In sostanza, il modo in cui descriviamo i nostri personaggi ha qualcosa, e allo stesso tempo non ha niente, a che vedere con posizioni socio-politiche.


Luc: Ma forse riprendere gesti e cose molto specifiche, materiali, è quello che permette allo spettatore di avvertire tutto ciò che è spirituale,  non visto, e non appartenente alla materia. Tendiamo a pensare che più uno si avvicina alla tazza, alle mani, alla bocca le cui labbra stanno bevendo, più si può essere in grado di sentire qualcosa di invisibile – una dimensione che volgiamo seguire e che altrimenti sarebbe meno presente nel film. Come si cattura ciò che accade quando un gesto viene insegnato? Ad esempio, quando Oliver insegna al ragazzo i movimenti del proprio mestiere. Si, di certo c'è il fatto che l'altra persona farà la stessa cosa, ma accade anche qualcos'altro. Come catturarlo sulla pellicola? Forse filmando i gesti nel modo più preciso possibile si può rendere accessibile ciò che non viene visto?


 


 

Cineaste si autodefinisce "la principale rivista americana sull'arte e le politiche del cinema". Nata nel 1967, esce regolarmente ogni quattro mesi. L'impatto visivo è semplice e stilizzato. A una copertina a colori ma sempre sobria si affianca un'impaginazione del tutto priva di fronzoli e un uso continuo del bianco e nero. È sicuramente una rivista impegnata, che scruta criticamente anche i film più commerciali sotto un'angolatura ideologica e molto sensibile alle tematiche razziali. Da questo possono scaturire anche articoli originali in cui con serietà sociologica si ricostruisce il tema sociale dominante: ad esempio come il maschio bianco americano è rappresentato e codificato nelle teen-comedies (Primavera 2002), genere apparentemente poco compatibile con una rivista dall'apparenza così seriosa. I temi di Cineaste sono vari e approfonditi, e di rado ci si pongono problemi di lunghezza. A volte la rivista ospita articoli di eminenti professori universitari, ma rimane comunque indipendente dalle istituzioni accademiche e, ovviamente, dall'industria. Oltre all'attenzione verso i temi sociali e l'indagine ideologica del cinema, Cineaste cerca di non limitare il proprio campo di indagine al Nord America, prestando attenzione al cinema di tutto il modo, dal "primo" al "terzo". Vista la cadenza quadrimestrale e la vocazione riflessiva della rivista, è difficile che le recensioni siano complete o aggiornate: meglio rivolgersi a Cineaste per le lunghe interviste a personaggi significativi o per l'impegno nello scavare sotto le diverse angolature della settima arte.

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