#Locarno69 – Viejo calavera, di Kiro Russo
Russo riprende la tradizione del Terzo Cinema, lavora sul posto e con la gente del posto, usa attori non professionisti con l’idea di dare voce a un’umanità complessa. A Cineasti del Presente

Viejo Calavera di Kiro Russo nasce da un cortometraggio del 2012, Juku*, in cui il giovane regista scendeva in miniera per misurarsi con una sfida formale, quella dell’assenza di luce, ponendo le basi per una grammatica visiva che il lungometraggio di quest’anno riprende e integra in un progetto cinematografico più ampio.
La trama – esilissima – segue Elder Mamani, giovane boliviano sbandato e alcolista, finire a lavorare in miniera dopo la morte del padre. Lì il protagonista dovrà fare i conti con la propria estraneità all’ethos comunitario dei propri compagni di lavoro, col dubbio amletico di un assassinio, e più in generale con la propria incapacità di integrarsi nell’ordine sociale.
Progetto cinematografico più ampio, si diceva: Russo riprende la tradizione del Terzo Cinema, lavora sul posto e con la gente del posto, usa attori non professionisti con l’idea di dare voce a un’umanità complessa. Allo stesso tempo rifiuta ogni postura moralistica, e al miserabilismo paternalista di tanto cinema d’impegno sostituisce un’etnografia allucinata e misteriosa.
A reggere il film, infatti, è soprattutto l’atmosfera. Forte di una fotografia virtuosistica – i primi venti minuti sono da urlo – la pellicola mette in piedi uno scenario dai contorni mitici, una in cui l’uso della profondità di campo, del suono fuori campo e di straordinari pianisequenza sotterranei finisce per evocare una scena primordiale (fioccano rimandi a Tarkovsky e al Visconti de La terra trema) in cui l’universo ctonio della miniera si mescola alla coralità dei minatori.
In sottotraccia sta il divario generazionale (e politico?) tra Elder e i suoi colleghi più vecchi: un desiderio di eversione e ribellione mediato dall’alcool, quello del giovane protagonista, che pare tendere all’anarchia, prima di ricomporsi – sebbene solo nell’inquadratura finale – in un inaspettato, delicatissimo gesto di umanesimo.