Lost Girls, di Liz Garbus

Il cinema sembra stare con il fiato sul collo alla cronaca: su Netflix, la documentarista Liz Garbus passa alla fiction con una storia forte affidata al volto duro di Amy Ryan

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Il cinema sembra stare con il fiato sul collo alla cronaca. Lost girls della documentarista Liz Garbus, sensibile ai temi della convivenza sociale e alle sue ricadute, lavora su un piano che le è strettamente congeniale, quello di un cinema che stia al confine tra ricostruzione dei fatti e documento sociale. Da qui deriva l’assoluto realismo del film, distribuito sulla piattaforma Netflix, che non concede nulla all’invenzione, all’immaginazione, alle ipotesi, alle deduzioni dell’autrice.
Il film trae spunto da un fatto realmente accaduto, tutto sommato di recente. Nel 2010 una serie di omicidi di giovani prostitute sconvolse la comunità newyorkese. I delitti furono scoperti solo quando in tempi differenti furono ritrovati i loro corpi. Tutto accadde nella zona di Long Island, braccio di terra situato di fronte alla metropoli americana, in una specie di riserva per benestanti bianchi, gelosi del loro isolamento. Ma il corpo di Shannon, che fa lo stesso mestiere ed è sparita al mondo, non si trova. La madre Mari combatterà fino allo stremo per ritrovare la figlia e solo grazie alla sua determinazione, il cadavere avrà degna sepoltura.
Il film non si discosta dal susseguirsi degli avvenimenti e dell’indagine che ne seguì e si sviluppa addosso alla cronaca e, complice sicuramente la matrice documentaristica della sua autrice, resta incollata allo sviluppo degli eventi, nel moderatamente serrato loro susseguirsi. Si staglia, con chiara efficacia, l’interpretazione aggressiva e volitiva di Amy Ryan, già attrice per Clint Eastwood in Changeling e di Spielberg per La guerra dei mondi e Il ponte delle spie. La Mari Gilbert di Amy Ryan restituisce intensità al film, immette quel sangue necessario a riscaldare i contorni di una vicenda che sembra affogare nella freddezza della cronaca nera. Il suo contraltare è il vago, dubbioso e incerto poliziotto Richard Dorman incaricato delle indagini, cui dà il suo volto perfetto Gabriel Byrne naturalmente versato in questi ruoli di uomo esitante e pessimista come è in questo nel film.
L’indagine di polizia, alla lunga, diventa il pretesto per una storia al femminile ed è questa la piega che prende quando le madri e le sorelle delle giovani prostitute si riuniscono per vivere insieme il dolore, celebrare le vittime. Soprattutto assistere al macabro e incessante rituale del ritrovamento dei corpi seppelliti lungo le rive dell’isola newyorkese, ad uno ad uno, in quella zona di confine tra la spiaggia e la palude che difende le residenze-fortino, le proprietà di quei bianchi che, però, non disdegnano la compagnia delle ragazze. Ma le indagini proteggono questa piccola e danarosa comunità, nonostante le insistenze di Mari che chiede di indagare sulle loro vite. La differenza sociale e il rapporto con una originaria protezione da parte degli organi inquirenti nei confronti di queste persone, diventa uno dei temi del film che si lega a quel mai disciolto, nonostante tutte le vicissitudini, rapporto materno che la protagonista, ora, sente più forte con la figlia scomparsa.
Lost girls, quindi prova a rideterminare i rapporti di maternità, le relazioni familiari oscure e taciute, in un ambiente domestico di esclusivo dominio dei personaggi femminili. Ancora una volta la maternità protettiva si scontra con una sorda attenzione tutta declinata al maschile. Ma anche questa non è una grande novità, spicca, infatti, in questo scenario consueto, il ruolo negativo di tutti i personaggi maschili, compreso il poliziotto “buono” di Byrne, la cui indecisione e incertezza peserà sull’esito finale della vicenda, almeno nel recupero del corpo della povera Shannon. Non conosciamo i reali termini della storia, né il libro di Robert Kolker sul tragico fatto di cronaca, ma nel suo mimetizzato scenario femminista il film è fortemente sbilanciato in questa direzione e se di certo la riaffermazione del carattere femminile serve anche a riproporre il tema della maternità come esclusiva questione familiare, dalla quale i componenti maschili sono del tutto esclusi, dall’altra questo pesa sull’equilibrio del film. Ad esempio ci si domanda che fine abbia fatto il padre di Shannon e delle altre figlie, nonché compagno di Mari Gilbert. La presa di posizione dell’autrice resta desumibile dai comportamenti delle donne, in altre parole non è mai urlata.
Nel suo ritmo non sempre incalzante, ma accettabile e nella sua scrittura senza troppe sorprese, Lost girls, si affida all’interpretazione della sua protagonista in una storia, che per quanto non particolarmente originale desta comunque l’attenzione dello spettatore e riporta alla luce quel fatto incredibile che provocò l’omicidio impunito di sedici giovani donne. Un altro caso irrisolto che acuisce e aggrava i rapporti di fiducia tra i cittadini e le istituzioni e nel quale pesano i pregiudizi e le figure delle vittime. Il film sa mettere in risalto questo decisivo aspetto, facendo pesare sulle spalle anziane del poliziotto Dorman la colpa assoluta di questa dolorosa sconfitta, ma anche dello scarso valore che, più o meno, esplicitamente, si attribuisce alla morte di una prostituta in una società politicamente corretta e politicamente democratica.

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Regia: Liz Garbus
Interpreti: Amy Ryan, Thomasin McKenzie, Gabriel Byrne, Oona Lawrence, Lola Kirke, Miriam Shor
Distribuzione: Netflix
Durata: 95′
Origine: USA, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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