L’ultimo valzer di Bernardo Bertolucci

Ci ha lasciato oggi a 77 anni uno dei più grandi registi di sempre. L’unico italiano ad aver vinto l’Oscar per la miglior regia per L’ultimo imperatore. Il nostro ricordo tra pubblico e privato

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Si, sembra sempre di ballare davanti al cinema di Bernardo Bertolucci. Dove non soltanto gli occhi ma anche il resto del corpo inizia a reagire.  Che forse col cinema non ha nulla a che vedere. Sono soltanto reazioni soggettive. Che possono manifestarsi davanti a qualsiasi altra cosa: un quadro, un concerto rock, una partita di calcio della tua squadra del cuore. Pochissimi cineasti fanno questo effetto. Tra questi ci sono Max Ophuls, Jean Vigo e Robert Bresson. Che Bertolucci amava enormemente. Perché nel suo cinema non citava i modelli di alcuni autori che lo avevano influenzato. Ma invece si portava dentro la carne e lo spirito. Di Ophuls ne ha parlato più volte. Il piacere scorreva sempre nella sua testa. E in un’intervista ha raccontato: “Nel 1964 andai a Cannes alla Semaine de la Critique con Prima della rivoluzione. Il film ebbe una serie di storiche stroncature da parte della critica italiana. Piacque invece molto ai francesi, a partire dai Cahiers du Cinéma. Ed ebbe qualche premio tra cui un Prix Max Ophuls. Era legato a questo grande regista, mitico. io avevo soltanto 23 anni e all’epoca avevo visto soltanto Lola Montes. Per qualche motivo strano, c’è voluto un premio per costringermi a guardare i suoi film (…) All’inizio degli anni ’70 mia moglie Clare (Peploe) mi fece un regalo. Eravamo a Parigi e su Paris Scoop aveva scoperto che in un cinema proiettavano Le plaisir. Secondo lei il mio cinema era stato molto influenzato da Ophuls. Il film comincia. Dopo il primo episodio, Le masque, passo da uno stato di trepidazione a uno di agitazione, all’eccitazione fino a una specie di orgasmo cinéphile, di piacere assoluto totale. Sento che mi è venuta la febbre e dico a Clare: “Io non ce la faccio più. Gli altri episodi li vedremo un’altra volta”. Siamo usciti. E io non la smettevo più di parlare. Mi era piaciuto troppo quel primo episodio. E non ce la facevo a vedere il resto. E una cosa del genere non mi è più successa”. Di Jean Vigo invece aveva la libera anarchia e la capacità epidermica di trasmettere il freddo, di far sentire l’acqua addosso. Come i protagonisti di L’Atalante.

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Bresson infine entra invece dentro il monumentale The Dreamers, il suo personale Effetto notte. Con due frammenti: Perfidia e Mouchette. Girato come se ci si trovasse davvero nel ’68. Proprio lo stesso anno di Partner, il suo film sulla contestazione, sull’utopia rivoluzionaria, forse quello in cui mette in gioco in maniera più dichiarata il suo amore per l’Espressionismo tedesco. Il gioco, la seduzione, il male. E tutte le tracce di una memoria autobiografica, da cinéphile appunto, che non riesce a contenere. Tutti i battiti incontenibili del (suo) cuore. a anche con l’essenza e la purezza bressoniana. Quando compaiono i suoi film. Con gli occhi di Bertolucci che guarda Bresson e ne assorbe tutta l’essenza. The Dreamers quasi il post-prequel di Ultimo tango a Parigi (1972). Ancora una casa, che segna proprio il lato intimo, di piacere, di erotismo di tutto il suo cinema. Marlon Brando e Maria Schneider in un autoisolamento come in una caverna. In un film strepitoso e maledetto, sequestrato e condannato al rogo, liberato solo negli anni ’80. Oggi un passaggio fondamentale di tutta la storia del cinema italiano. Ancora con l’antinomia del piacere e la morte. La stessa casa/cella che segnerà anche l’appartamento liberty di L’assedio (1998), o quella dell’ultimo Io e te (2012) dove si rinchiude un adolescente che deve fronteggiare la sorellastra.

Ecco, gli spazi del cinema di Bertolucci. Che a un certo punto si potevano aprire all’improvviso. Con le scale di L’assedio e soprattutto Io e te che potevano apparire delle spirali come nel cinema di Fritz Lang. Aprirsi sul vuoto. O estendersi verso l’esterno come la campagna toscana vicino alla villa di Gaiole in Chianti dove va a soggiornare la diciottenne Lucy in Io ballo da sola (1996), nei paesaggi di Parma e dintorni di Prima della rivoluzione del 1964 (dove qui la musica irrompe e squarcia quasi i luoghi con Gino Paoli e il Macbeth di Verdi, proprio come Space Oddity di David Bowie in Io e te) o nella Bassa Padana di La tragedia di un uomo ridicolo (1981), il miglior film sul terrorismo con uno sconvolgente Ugo Tognazzi premiato a Cannes come miglior attore. O ancora lo spazio come ri/scoperta, ritorno alle radici e alla memoria. Da Brooklyn a Roma in La luna (1979), in una forse delle sue opere più tormentate. Lo stesso ritorno a casa del figlio di un eroe antifascista che scopre la verità sulla morte del padre in Strategia del ragno (1970), liberamente ispirato a Borges, uno dei suoi titoli davvero imprenscindibili. Con il paesaggio che man mano sembra chiudersi e diventare claustrofobico. Proprio il contrario dei suoi appartamenti che invece si ingrandiscono all’infinito. Ma che può anche all’improvviso liberarsi en plei-air come la scena del ballo all’aperto sulle note di Giovinezza. Dove Bertolucci sembra fare le prove per il suo imponente affresco del dittico di Novecento (1976). Olmo ed Emilio, nati nello stesso giorno. La storia personale si intreccia con la Storia. In un cinema ancora così intimamente politico anche quando mostra la lotta di classe. Dove entra in gioco, quasi per istinto, anche il mélo hollywoodiano qui carico di terra e luce. E ancora c’è, come in Strategia del ragno, la scissione, il doppio. Quasi le coordinate di un’esplorazione delle zone del thriller che troverà pieno compimento in Il conformista (1970), adattamento dal romanzo omonimo di Moravia, ma anche estremamente inventivo, con le luci della fotografia di Vittorio Storaro che creavano quasi un’illusoria cura figurativa in un cinema ancora disperato, malato di sesso e morte, luci che esploderanno poi del tutto in Ultimo tango. Tracce evidenti che erano già presenti nel suo primo lungometraggio, La commare secca (1962), realizzato quando aveva 21 anni, su un soggetto di Pier Paolo Pasolini e la sceneggiatura scritta con Sergio Citti. Ma già lontano da echi pasoliniani. Un delitto sul Tevere dove viene ritrovato il cadavere di una prostituta. Ogni sospettato racconta la propria verità. Come gran parte dei personaggi del cinema di Bertolucci. Le loro vite, le loro storie, che diventano qualcosa di profondamente universale. In un cinema così lirico e così grande. Da non poter essere acchiappato tutto. Quando Enrico Ghezzi parlava della sua immensa ‘sensibilità poetica’ apriva ulteriormente gli orizzonti di un cinema già sterminato.

La mia prima volta col cinema di Bertolucci è avvenuta nel 1987. Avevo 18 anni. Vedevo in tv i filmati sul set di L’ultimo imperatore. E’ stato l’unico regista italiano ad aver vinto l’Oscar per la miglior regia, con quel film. Non mi sembrava neanche un regista italiano. Per il modo in cui parlava, gestiva quel set imponente di un kolossal col quale aveva fatto le prove con Novecento. Ma nella storia vera di Pu Yu c’è tutto anche il melodramma d’opera, un’imponenza che oltrepassava tutte le forme del biopic. Che invece in Piccolo Buddha (1993) andrà verso le forme più pacificate, quasi una favola spielberghiana. La stessa ricerca di pace di Il tè nel deserto (1990), con echi rosselliniani (la coppia in crisi che sbarca a Tangeri nel 1947 come quella di Viaggio in Italia), ma che si apre alle vastità di un deserto herzoghiano. Due cineasti e due mondi così lontani. Ma forse così vicini. Perché (mi) viene da accostarli così frequentemente?

Poi c’è stata la volta dell’intervista. Era il 2012, in occasione della presentazione di Io e te. Avevamo ottenuto un’intervista video singola assieme a Sergio Sozzo e Aldo Spiniello. Stavamo lì dentro quella stanza con lui. C’era un timer. Sette minuti in tutto. Avevo già fatto centinaia di interviste. Ma davanti a lui all’inizio mi ero quasi bloccato. E penso anche Sergio e Aldo. Poi come nei suoi film scatta uno strano incantesimo. Ed è come se fossimo a un tavolo a parlare di cinema bevendo vino. Al primo istante non ho pensato alla sua carriera. Ma, non so perché,  al Presidente di giuria che nel 1990 a Cannes aveva imposto Cuore selvaggio di David Lynch come Palma d’oro. Da lì si riparte, tutto ricomincia. Leonardo Lardieri in un post oggi nella nostra chat di messenger ha detto che Bernardo Bertolucci andava clonato. Aveva ragione.

 

 

 

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