Mantagheye bohrani (Critical Zone), di Ali Ahmadzadeh

Un film clandestino che racconta la folle notte di Amir a Teheran, dove il valore politico conta più di quello artistico. Locarno76. Concorso Internazionale.

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La prima cosa da dire riguardo Critical Zone è il fatto che è stato girato in segreto, senza il permesso delle autorità, ed è assemblato mettendo insieme dieci cortometraggi rubati nella notte di una Teheran sconosciuta ed inedita. Una città resa solitamente in maniera opaca, fotografata dal regista in quegli aspetti secolari che la narrazione ufficiale del regime, impostata sul racconto di una società fedele ai precetti della religione islamica, vuole negare. Un film pericoloso, non solo per una scontata maledizione degli ayatollah, quanto per il rischio concreto per il regista di finire in prigione. Ali Ahmadzadeh è infatti costretto a vivere come un latitante e ha dovuto rinunciare a partecipare alla proiezione di Locarno, dove il film è inserito tra i titoli del Concorso Internazionale.

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Queste premesse sono necessarie per esprimere un giudizio che tenga presente le difficoltà alla base del progetto e gli ostacoli di svilupparlo in una situazione di clandestinità, usando ad esempio della gente comune, invece di attori professionisti, che con la sola partecipazione mettono comunque a repentaglio la propria incolumità. In tale contesto fanatico e bigotto, la storia di Amir, che fa lo spacciatore di droga, ma si sente un profeta chiamato ad alleviare le anime sole, gli infermi, i malati di corpo e di spirito, può provocare una condanna, ovviamente basata sul nulla da cui parte l’accusa. Amir si muove tra le strade della capitale in macchina per raggiungere i clienti con la sua panacea, mentre una voce narrante di un navigatore scandisce la sua direzione, quasi intima dei comandi, un fuoricampo usato per ricordare il controllo capillare esercitato da un sistema repressivo. Le donne, la categoria più minacciata, gli uomini e i ragazzi che incontra durante il tragitto cercano una cura, una deriva, un argine alla limitazione della libertà, provano a narcotizzare stupidi obblighi morali con gli effetti delle droghe e fuggire nell’oblio per dimenticare il presente e trovare il coraggio di affrontare la rassegnazione. Non hanno nulla di straordinario, né peccati troppo grandi da confessare. Vivono le debolezze e le paure di tutti, cercano l’amore o il sollievo o lo sballo, eppure sono individui ben aldilà dei comportamenti consentiti dalla legge coranica, quando applicata alla lettera, e passibili di pene severissime.

Questi incontri fugaci sono il corpo del film. Porzioni di verità che un estraneo potrebbe trovare banali senza considerare il loro carattere di eccezione. Il tono di fondo è quasi da commedia, soprattutto per merito del protagonista e del suo cane, un bulldog a guardia della casa, poi le scene a secondo delle circostanze diventando liriche o drammatiche grazie anche all’uso del suono e degli spazi che coinvolgono le altre due grandi passioni del regista, l’architettura e la musica. La scelta di parlare dell’emergenza democratica attraverso la figura trasgressiva di un improbabile santone tossico è forse la rivendicazione di diritti che uniscono vizi e virtù, una sfida a viso aperto che aggiunge a Critical Zone, il terzo lungometraggio di Ali Ahmadzadeh, un valore politico maggiore di quello artistico.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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