Music for Black Pigeons, di Jørgen Leth e Andreas Koefoed

Fuori Concorso a Venezia 79, lo straordinario documentario segue le registrazioni di Jakob Bro lungo 14 anni e un gran numero di musicisti coinvolti, tra cui leggende come Frisell, Konitz, Motian

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Durante la sua tappa alla Casa del Jazz di Roma dell’inverno scorso, il gigantesco sassofonista Tim Berne fermò la sua performance in duo con Matt Mitchell al piano per rivelare sconsolato al pubblico della sala di Caracalla “Sento di non stare riuscendo in alcuna maniera a connettermi con voi, stasera”. E io in quell’istante avrei voluto alzarmi in piedi dalle poltroncine della sala per urlargli che sì, so bene di cosa stesse parlando, dio solo sa quante volte mi ero sentito nella stessa maniera anche solo nel corso di quelle stesse settimane vicine all’esibizione. Riuscire a connettersi: Lee Konitz, peso massimo della scena newyorkese, non sa bene come definire la musica composta dal chitarrista danese Jakob Bro, che lo ha invitato a partecipare alla registrazione di un suo album. Bro suona una sorta di folk astratto chiaramente ispirato a Bill Frisell (che pure appare in un suo disco e in questo doc), mentre Konitz viene dalla scuola dura e pura dell’improvvisazione d’avanguardia – le opere del danese nascondono spesso queste gemme di equilibrio, con questa capacità innata di tenere insieme stili e nazionalità profondamente differenti tra di loro, come il leggendario batterista Paul Motian o il genio del pianoforte Craig Taborn.

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Per quattordici anni, Leth e Koefoed hanno seguito le session in studio di Jakob Bro per i suoi vari album, raccontando insieme la vita e le peregrinazioni per New York City (in location storiche come il VIllage Vanguard, per dire) di questo nugolo ritornante di musicisti: se Konitz, con i suoi continui borbottii, è il classico esempio di newyorkese spigoloso e burbero (morirà di Covid nel 2020, come un pazzesco numero di jazzisti in USA non in grado di accedere alle cure statali con il loro tenore di vita da musicisti “di nicchia”), il contrabbassista Thomas Morgan mostra decisamente una verve opposta nel momento in cui deve rispondere alla domanda dei registi su cosa gli passi per la testa mentre suona il suo strumento al picco della concentrazione.
Morgan rimane in silenzio per un tempo interminabile, si guarda intorno, con ogni evidenza fa una fatica immane a cercare le parole per spiegarsi – se ci fosse una sequenza in grado di esprimere il senso ultimo di questa musica, potrebbe con molta probabilità essere questa, lo sguardo perso di Thomas Morgan che non sa rispondere a voce. Un’inquietudine benedetta, da preservare anche se la cerchi di scacciare con gli esercizi mattutini sul pavimento della camera da letto, come fa Morgan.

Ecco, Leth e Koefoed sono bravi appunto a cogliere la connessione che si crea negli spazi delle interviste, e in quelli delle salette d’incisione – c’è sempre la percezione di qualcosa che stia per accadere, una tensione costante che si agita nell’aria ogni volta che questa musica appare, sia essa “dal vivo” che sparsa dagli stereo di casa dei protagonisti. Alla stregua dei musicisti che compongono un pezzo passandosi lo spartito tra i sedili dell’aereo in volo come un cadavere squisito, i due autori montano tutto senza soluzione di continuità, le annate e le situazioni si affastellano, le strade della città con gli appartamenti, come le piste audio sulla consolle di Manfred Eicher, il producer della miracolosa etichetta ECM che sta dietro a questi dischi (“questa non la cancellare!”, gli intimerà Bro ad un certo punto dopo un certo take ben riuscito di una ballad…).
Nella straordinaria tradizione di grandi film sul jazz come Ornette: Made in America o i lavori di Amalric su John Zorn, ciò che resta è soprattutto un mistero (come quello che Thomas Morgan non vuole chiaramente svelare), la capacità magica di questa musica di materializzarsi (sin dalle origini di entrambi i linguaggi) al cospetto dell’occhio del cinema, farsi una sorta di elemento tangibile dell’inquadratura, e insieme un fantasma sempre sfuggente e impalpabile, un intreccio di mani che cerca di stringere, di fermare anche solo per un attimo quel fremito, quel battito d’ali del piccione nero alla finestra.

(per jaimie branch)

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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