No Sudden Move, di Steven Soderbergh

Su HBO Max dopo Let them all talk, questo No Sudden Move è ancora perfettamente inserito nell’ormai articolato discorso estetico soderberghiano, nelle zone d’ombra del capitalismo finanziario

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Le sonorità contemporary R&B di David Holmes accompagnano la lunga camminata di Don Cheadle in una strada periferica nella Detroit del 1954. Nel frattempo, i titoli di testa stilizzano loghi e font del noir classico alternandosi a foto d’archivio in b/n che producono scarti evidenti nella percezione di inquadrature smaccatamente digitali – la videocamera RED Monstro accentua a dismisura la profondità di campo e i grandangoli creando un vertiginoso effetto ovale che allude da un lato alle origini fotografiche del medium e dall’altro gli odierni dispositivi di controllo.
Ecco, potremmo anche fermarci qui: quest’innocua passeggiata contiene già tutti gli ingredienti teorici, tecnici e culturali che ci servono per ragionare sul nuovo bellissimo film diretto/fotografato/montato da Steven Soderbergh. In No Sudden Move i segni di un genere codificato e di un apparato iconografico perfettamente rispettato (costumi e scenografie di straordinaria resa materica) sono costantemente messi in dialettica con supporti visivi e stilemi di regia quanto più possibile vicini all’esperienza contemporanea delle immagini (nessuna soggettiva concessa ai personaggi, pedinamenti e panoramiche meccaniche come fossimo in un sistema di videosorveglianza). Insomma, basta veramente una singola inquadratura a Steven Soderbergh per dispiegare un discorso magnificamente fecondo e complesso sulla nostra cultura visuale.

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E poi c’è la storia. Lo sceneggiatore Ed Solomon orchestra un affascinante collage narrativo che ci fa pian piano familiarizzare con le motivazioni e il retroterra dei tanti caratteri coinvolti in questa nuova giungla d’asfalto: due personaggi al limite della legalità – l’afroamericano Curt Goynes/Don Cheadle appena uscito di prigione e l’italoamericano Ronald Russo/Benicio Del Toro posto ormai ai margini della sua organizzazione – vengono incaricati da un misterioso emissario – il redivivo Brendan Fraser in un ruolo da grande caratterista – di tenere in ostaggio la famiglia di un impiegato d’azienda inducendolo a rubare un documento segreto. Nessuno sembra conoscere i reali motivi di quest’azione criminale, ma pian piano emergeranno le tensioni etniche latenti e gli oscuri interessi dell’industria automobilistica impastati da un lato alle istituzioni cittadine e dall’altro alle organizzazioni malavitose (straordinari i ruoli dei due vecchi boss Ray Liotta e Bill Duke). Fragili equilibri di potere che ruotano intorno al controllo delle informazioni e dei relativi campi di percezione: il cameo di Matt Damon, esattamente come in Unsane, diventa il cuore filosofico del film.

E allora, se l’immaginario di riferimento resta il neo-noir di Elmore Leonard o Walter Mosley riscritto dal cinema americano anni Novanta (lo stesso Out of Sight, Jackie Brown di Tarantino o Il diavolo in blu di Carl Franklin), questo No Sudden Move è anche perfettamente inserito nell’ormai articolato discorso estetico soderberghiano. Con abilissima gestione dei tempi narrativi, infatti, sono nuovamente i flussi di denaro a guidare gli ignari attanti: dalle frontiere della droga in Traffic alle truffe assicurative in Erin Brockovich, dai furti glamour in Ocean’s Eleven a quelli proletari in Logan Lucky, dal lockout finanziario di High Flying Bird ai paradisi fiscali di Panama Papers, ecc. … ogni linea d’azione viene puntualmente innescata nelle zone d’ombra del capitalismo finanziario. Una riflessione che si fa spesso speculare a quella sul dispositivo cinematografico sempre più sciolto nelle esperienze mediali odierne, eppure capace ancora di creare nuove oasi espressive (Let Them All Talk, appunto).

Da questo punto di vista la Detroit degli anni Cinquanta (la Motor City in piena espansione con le lotte intestine delle big four dell’automobile) diventa l’esempio perfetto di un ambiente associato dove l’evoluzione tecnica, gli esperimenti di gentrificazione urbana e di controllo sociale creano interessi paradossali che nessuno comprende sino in fondo (neanche noi spettatori) ma che condizionano ogni singolo percorso umano. Ecco che il documento/mcGuffin intorno a cui ruota la narrazione frammentata produce infinite derive potenziali: il coming of age del piccolo Matthew che diventa adulto, il desiderio di redenzione di Curt e Ronald, l’abisso morale della femme fatale Vanessa e il melodramma sirkiano vissuto da Mary e Matt. Insomma, i sentimenti universali e i generi codificati del cinema hollywoodiano diventano gli effetti collaterali di un sistema di regole freddo e apparentemente impenetrabile.
Ripetiamolo per l’ennesima volta: nell’odierno panorama audiovisivo quello di Steven Soderbergh ci appare uno degli sguardi più lucidi proprio perché capace di condensare urgenti istanze sociali, culturali, tecniche e mediali in film, serie o narrazioni-partecipate che rimbalzano dal grande schermo alle app, dalle piattaforme streaming ai Festival internazionali, riflettendo apertamente sulle nuove gerarchie di potere delle immagini (questa è la volta di HBO Max) e sfidando ogni programmabilità algoritmica del nostro immaginario. L’immenso Don Cheadle sta nuovamente camminando incontro al suo destino sulle note di Well, I Done Got Over It di Bobby Mitchell: sul Pianeta Soderbergh, insomma, il cinema è più vivo che mai.

Titolo originale: id.
Regia: Steven Soderbergh
Interpreti: Don Cheadle, Benicio Del Toro, David Harbour, Ray Liotta, Jon Hamm, Brendan Fraser
Distribuzione: HBO Max
Durata: 115′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.04 (23 voti)
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