PESARO 45 – "The insomniac city cycles", di Ran Slavin (Cinema israeliano contemporaneo)

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Nell’ ampia retrospettiva sul cinema israeliano che il Festival di Pesaro propone non può non far piacere un film che si discosta totalmente dalle tematiche che la cinematografia ebraica evidenzia con grande insistenza quali la religione, la famiglia, la guerra, la condizione femminile, tematiche che rischiano di rinchiudere un cinema, quello israeliano, in angusti confini, impedendogli di fatto uno sviluppo più libero e creativo.

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insomniacNell’ ampia retrospettiva sul cinema israeliano che il Festival di Pesaro propone non può non far piacere un film che si discosta totalmente dalle tematiche che la cinematografia ebraica evidenzia con grande insistenza quali la religione, la famiglia, la guerra, la condizione femminile, tematiche che rischiano di rinchiudere un cinema, quello israeliano, in angusti confini, impedendogli di fatto uno sviluppo più libero e creativo. Ben venga allora un lungometraggio come The insomniac city cycles, di Ran Slavin, che oltre alla direzione, si è occupato anche della sceneggiatura, montaggio, fotografia, musica e scenografia; un artista dunque completo, specializzato in musica e video arte. Il lavoro di Slavin è stato etichettato come un fanta-thriller sperimentale, dove un uomo cerca di capire chi gli abbia sparato in un parcheggio sotterraneo. L’opera del regista nativo di Gerusalemme funziona benissimo per buona parte di film, con splendide inquadrature della città di Tel Aviv, una sorta di “Berlino d’Oriente” dove a risaltare è un’architettura fatta di grattacieli modernissimi e strade trafficate. Una “città vivente” come l’ha definita giustamente il curatore della rassegna Maurizio G. de Bonis, ed infatti la città pare vivere e splendere di luce propria, sensazione amplificata da un montaggio particolarmente ritmato e “indisciplinato” che se ne frega delle regole narrative e da una illuminazione che alterna livore e vivida brillantezza dando proprio la sensazione “fisica” dello scorrere del tempo (da qui il titolo del film, i cicli). Lo sguardo rimane rapito da questa alchemica mescolanza e si lascia trasportare in un affascinante viaggio sensoriale. L’incantesimo termina però nel momento in cui compaiono alcuni personaggi – un killer, una donna, un uomo che blatera al telefono – che danno vita ad una narrazione che vuole avvicinarsi ad un thriller filosofico (i monologhi onirico-esistenziali della donna) mettendo in essere una vera e propria frattura con le immagini precedenti. In sostanza l’assoluta libertà emersa da quel continuo flusso di inquadrature che ritraevano “cemento, acciaio e cielo” viene disturbata dall’entrata in gioco di una (non) storia che vede protagonisti (ir)reali esseri umani. Ed è proprio questo a non funzionare, l’inserimento di una narrazione, iperbolica quanto si voglia, ma che comunque mette un laccio, un freno a quel confluire ininterrotto di immagini superbamente destabilizzanti che fanno vivere e respirare un’intera città.

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