#RomaFF13 – Funan, di Denis Do

Funan è un lungo d’animazione di Denis Do, presentato alla tredicesima edizione del Festa del Cinema di Roma, che racconta le terribili conseguenze della dittatura dei Khmer Rossi in Cambogia

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Per il suo primo lungometraggio di animazione da regista presentato alla Festa del Cinema di Roma, Funan, Denis Do ha preso ispirazione dalla vicenda che ha personalmente coinvolto la madre in Cambogia durante il terribile periodo della dittatura dei Khmer Rossi. Questo lavoro conferma il suo desiderio di raccontare storie umane, personali e piene di emozioni, e di implementare la storia di una persona all’interno della più ampia cornice della Storia con un’estetica elegante e realista, cosa già successa infatti nel cortometraggio d’esordio, Le Ruban, il racconto di una storia d’amore sotto la rivoluzione culturale cinese degli anni 60.

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Funan si sviluppa su una linea cronologica ordinaria con due salti temporali, prende il via il 17 Aprile 1975 giorno della presa del potere da parte del regime, per concludersi nel 1979, a ridosso della caduta, dopo aver lasciato una scia di sangue lunga due milioni di morti e migliaia di profughi.  Chou, la protagonista, vive un’esistenza felice con la sua famiglia, poi resta coinvolta nelle violenze del fanatismo che in nome del famigerato Angkar, il destinatario del verbo, riduce le persone dentro i campi di lavoro con il pretesto di allontanarle da stili di vita occidentali, additati come sbagliati. La deportazione per lei, come per tanti altri, significa la perdita di contatto con i propri cari, soprattutto con un figlio di quattro anni smarrito durante l’esodo di massa. Le voci dei protagonisti nella versione originale in francese sono due nomi d’eccezione: Bérénice Bejo per Chou, e Louis Garrell che interpreta suo marito, Khoun.

Il progressivo peggioramento delle condizioni di vita nei centri di detenzione viene descritto con i corpi sempre più denutriti che si assottigliano, anche per i massacranti turni di lavoro cui i prigionieri sono sottoposti. Il tratto minimale dei disegni per le figure umane e gli interni riporta alla mente uno stile in voga negli anni Ottanta, mentre ai paesaggi, pieni dei caratteristici specchi d’acqua, è riservato un’illustrazione molto più dettagliata, dove l’elemento pittorico avvicina il lato fotografico. Denis Do sceglie di rinunciare inoltre ad un’esibizione diretta delle crudeltà lasciando  dentro l’inquadratura soltanto quelle che ne sono le conseguenze, ad esempio una ferita, o affidando ad uno sparo il suggerimento di un altro, ennesimo, atto di sangue, mentre sullo schermo ha preferito insistere sulle terribili condizioni di lavoro, che alla lunga minavano i rapporti umani.

La graduale discesa verso uno stato di bisogno attraverso la privazione spinge i personaggi verso una deriva piena di diffidenze e tradimenti e non risparmia neanche Chou, alla quale è però assegnato il compito di mantenere vivo l’orgoglio di un popolo privato con il cibo e gli affetti, anche della dignità di sentirsi umano. L’uscita dall’incubo della dittatura dopo quattro anni è la soglia sulla quale si ferma il film e rappresenta la perfetta chiusura del cerchio con un messaggio di speranza funzionale al progetto, storicamente per la Cambogia fu soltanto l’inizio di un altro periodo terribile, con la scoperta di centinaia di fosse comuni.

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