#RomaFF13 – Hermanos, di Pablo Gonzaléz

Sembra voler mettere in scena una cruda storia pulp dai tratti stranamente ingenui. Disegna una Colombia caotica e violenta che cozza con la semplicità passionale dei suoi protagonisti

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Una moto, uno sparo, i due Hermanos protagonisti, Federico e Ramiro, che fuggono urlando, poi il buio su cui campeggerà il titolo della pellicola (presentata in Selezione Ufficiale alla Festa di Roma). Con questa prima sequenza il regista Pablo Gonzaléz presenta immediatamente lo stile, i toni e gli elementi che ricorreranno successivamente nella sua opera. Dopo sette anni da quel colpo mal riuscito, Federico esce dal carcere e torna nella sua città natale, in Colombia, dove il tempo sembra essersi fermato. Qui ritrova Ramiro, ancora coinvolto in affari loschi. Federico intende però tornare sulla retta via, ma senza successo. Ramiro si è infatti indebitato con lo spietato criminale locale Henry e chiede il suo aiuto, dando vita così a una spirale di violenza e caos.

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Ho un letto, una famiglia, un lavoro, che mi manca? si domanda quasi retoricamente Federico, nella prima parte del film, nel tentativo di sedurre la dura e sensuale Emilia Ceballos. Una domanda che nasconde una certa malinconia di fondo, dato che il letto di cui dispone è nella casa dei suoi genitori; la sua famiglia è composta da un padre che lo guarda con sospetto ed un fratello che dipende totalmente da lui; il lavoro che ha rimediato è quello massacrante in miniera, non certo quello che il formidabile pilota sognava di fare nella vita. Ed è appunto in questa dialettica tra menzogna, ingenua speranza e ben più desolante realtà che Hermanos si sviluppa.
La narrazione prende quindi piede dalla classica storia dell’ex-detenuto che, una volta uscito di prigione, persegue la strada della riabilitazione, scontrandosi però col mondo criminale che cerca di attirarlo nuovamente a sé. Quello che più incuriosisce nel corso della visione, però, è come i protagonisti, con le loro scelte e azioni, appaiano a più riprese come bambini troppo cresciuti, che appunto “giocano” a fare gli adulti,  i criminali, fino a quando non diventa tutto più grande di loro, in una spaventosa dinamica di causa ed effetto dove ad ogni cattiva azione ne corrisponde una ritorsione peggiore. Se Rodrigo Hernández Jerez (Ramiro) ne è l’emblema in questo senso, con la sua caratterizzazione fortemente immatura alla base, anche lo stesso Alejandro Buitrag (Federico), pur presentando i connotati dello spietato ragazzo di strada, arriva a sfoggiare (specialmente nella sua relazione amorosa) un sorriso innocente, imbarazzato, a tratti infantile. Bambini troppo cresciuti, appunto, inquadrati in una realtà in cui è impossibile esserlo, che li corrompe nel profondo, dove tutti sparano, imbrogliano e uccidono per risolvere i propri problemi.

La moto di Federico è il McGuffin che porta avanti l’intera storia, che lega i protagonisti e che si ripresenta, anche quando sembrava perduta, in tutti i punti chiave della vicenda. È la sua grande abilità come pilota che ha portato Federico a intraprendere la strada criminale. La moto viene conservata dal fratello Ramiro, durante la sua carcerazione, come a sostituirlo in attesa del suo ritorno. È con quella moto che i due sfidano in una gara il malavitoso Henry, per liberare Ramiro dai debiti, rendendola simbolo di un’insperata salvezza. Questa possiede però anche il merito di riunire i fratelli, che si rifugiano insieme in un’officina per rimetterla a nuovo e prepararla all’evento. La moto rappresenta quindi la loro infanzia, ciò che hanno in comune e li lega indissolubilmente, nonché il talento sprecato di Federico, ciò che poteva diventare se solo fosse nato in un contesto diverso. E nella parte finale, proprio da una moto saranno ironicamente traditi entrambi, come se questa avesse una volontà propria e disprezzasse l’utilizzo che hanno fatto del mezzo per tutta la loro vita.

Gonzaléz, in tutto questo, dimostra di sapere quel che fa, pur dando più volte l’impressione del contrario, esattamente come i suoi protagonisti. Sembra voler mettere in scena chiaramente una cruda storia pulp dai tratti però, come detto, stranamente ingenui. Disegna una Colombia caotica e violenta, con una fotografia grigia e polverosa, che cozza con la semplicità passionale dei suoi protagonisti. Hermanos è un interessante ritratto familiare confuso, volutamente contraddittorio, dove davvero nessuno si salva, né gli oppressori né tantomeno gli oppressi, dove non c’è spazio per la debolezza. I personaggi sembrano lottare contro la propria evoluzione e quando sembrano arrivare a una svolta, puntualmente preferiscono un’azione ancor più meschina. La storia finisce così in un crescendo quasi improvviso, consumandosi nello scontro tra una scelta malvagia e una ancor peggiore, in cui a vincere alla fine è solo l’avidità, il puro e animalesco istinto di sopravvivenza, il rifiuto dell’età adulta.

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