#Russia2018 – Africa e Asia: del residuo

Si tratta di riestetizzare il nostro sguardo sportivo mediante epiche costruite su una superficiale resistenza al modello geocalcistico imperante; un anelito alla “novità” totalmente naufragato

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In un Mondiale in cui ci si ritrova a essere totalmente spettatori si tende alla ricerca di narrazioni in grado di secernere emozioni figlie di un riscatto esistenziale e/o sportivo. Dalla storia di pastorizia e nomadismo di Beiranvand (portiere titolare dell’Iran) al superomismo stagionale di Salah (uno dei pochi calciatori a mettere in crisi in questi ultimi anni il duopolio Messi-Cristiano Ronaldo), la speranza è sita nella figura archetipica dell’eroe in grado di trascinare la propria squadra: un modello puramente individualista che il calcio, soprattutto quello dell’ultimo decennio, modella nella sua visione e scrittura collettiva. Si tratta, in fondo, di riestetizzare il nostro sguardo sportivo mediante epiche costruite su una superficiale resistenza al modello geocalcistico imperante; un anelito alla “novità” che è totalmente naufragato durante Russia ’18, simbolo, ancora una volta, della centralità del Vecchio e del Nuovo Mondo nella scrittura seriale propria delle World Cup.

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Non è bastata la solidità del 4-4-2 (modulo tornato in auge tra le nazionali meno forti) dell’Iran né la freschezza dei trequartisti del Marocco, non è bastata la compattezza del 3-5-2 della Nigeria con un Victor Moses figlio degli insegnamenti di Antonio Conte né la speranza che Salah potesse incantare sul palcoscenico così come fatto in Champions League, non è bastata la commistione di potenza e velocità del Senegal né le vittorie dell’Arabia Saudita e della Tunisia contro avversarie della loro portata: tutto si è risolto nella constatazione che l’abissale lontananza tecnica e tattica dalle squadre dell’Europa e del Sudamerica riduce le squadre africane e asiatiche al ruolo di sparring partner.
Eppure, questo coacervo di sconfitte ed eliminazioni difficilmente prevedibili (che una nazionale africana non si qualificasse per gli ottavi di finale non avveniva da 36 anni) si porta con sé delle istantanee fatte di strategie tattiche e dinamiche nazionali volte a quel beckettiano fallire al meglio (to fail better) delle proprie possibilità.
Immagini malgrado tutto destinate probabilmente a scomparire in brevi lassi di tempo proprio perché volte a creare dei meccanismi d’improvvisa quanto fatalistica sorpresa che vanno dal tiro sul fondo di Taremi negli ultimi secondi di Portogallo-Iran alla strenua resistenza tunisina nella partita contro l’Inghilterra al collasso nigeriano contro l’Argentina fino allo slancio vitalistico della Corea del Sud nella partita contro la Germania e alla (im)produttiva melina portata avanti dal Giappone negli ultimi minuti della partita contro la Polonia.

Nonostante i match di Corea del Sud e Giappone possano essere considerati come oggetti

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interni a questa narrazione ed estetica del fail better, vuoi per la quasi certa eliminazione dei coreani, vuoi per l’istinto di conservazione portato avanti dai giapponesi nella sconfitta per 1-0, la loro narrazione si tinge di elementi che sembrano saturare la provenienza orientale delle due nazionali: mentre da una parte la destituzione tedesca avviene mediante l’effetto speciale di Neuer che perde il pallone sulla trequarti avversaria, dall’altra ci si affida all’anestetico calcolo della differenza di ammonizioni per passare il turno. Ci troviamo così di fronte, in entrambi i casi,a due differenti logiche della sopravvivenza: l’impresa da tramandare e la perdita col minor scarto possibile.
La sconfitta e conseguente eliminazione del Senegal, l’unica squadra africana realmente in corsa, fin dalla prima partita, per gli ottavi di finale assume così, di fronte alla contemporanea sconfitta del Giappone, il sapore della beffa fratricida tra due squadre provenienti da mondi altri.
In attesa di nuove histoire(s), soprassedendo alle utopie,non possiamo far altro che accontentarci delle immagini, della loro (s)comparsa e della loro sopravvivenza.

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