Sguardi altrove – Introspezione e alienazione identitaria nella sezione Nuovi Sguardi

Il nostro personale percorso di visioni nella sezione competitiva del festival milanese, tra introspezione femminile, elaborazione post-trauma e messa in discussione della propria identità

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Si è appena conclusa la trentunesima edizione del festival milanese Sguardi Altrove. All’interno della rassegna cinematografica, dedicata allo sguardo cinematografico femminile, vi proponiamo un percorso di visioni nella sezione Nuovi sguardi. Una finestra sull’interiorità femminile, tra Europa, Medioriente e Asia, che passa attraverso storie di corpi, di vite quotidiane, di lotte per i diritti e di diritti negati.

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Abbiamo selezionato alcuni titoli all’interno dell’ampia e articolata sezione di titoli internazionali. Titoli in cui emerge, a nostro avviso, una fortissima analisi introspettiva femminile, tra elaborazione post-trauma e messa in discussione della propria identità, da parte delle protagoniste di questi interessanti lungometraggi.

Partiamo da I used to be funny, di Ally Pankiw. Produzione canadese che vede come protagonista l’attrice in rampa di lancio Rachel Sennott, già vista in Shiva Baby, The Idol e Finalmente l’alba. La dark comedy che la vede protagonista, girata dalla talentuosa Ally Pankiw (che ha già diretto alcuni episodi di serie TV come The Great e Black Mirror) ci permette di entrare all’interno della psiche di Sam, un’aspirante stand-up comedian schiacciata dallo stress post-traumatico in seguito alla scomparsa misteriosa della ragazzina a cui faceva da babysitter per arrotondare a fine mese. Mentre Sam è impegnata ad aiutare nelle ricerche della polizia, il nostro sguardo penetra tra le pieghe dei suoi ricordi, innescando un complicato dialogo tra presente e passato, memoria e senso di colpa. Il trauma sembra averle tolto la capacità di far ridere, ingabbiandola in una spirale di delusione, frustrazione ed infelicità tipica di quel racconto generazionale della gen Z a cui abbiamo dedicato uno speciale qualche mese fa. Lo scarto vero del film di Pankiw si trova, però, nella capacità di bilanciare l’affondo psicologico post-traumatico con una vis comica in grado di saper alleggerire i toni drammatici con i tempi giusti e a darci una prospettiva sul futuro tutt’altro che tragica.

Il secondo titolo di cui parliamo è il debutto alla regia di Joanna Arnow The feeling that the time for doing something has passed. L’inusuale racconto di formazione della Arnow segue con passo episodico la monotona esistenza di Ann, una cupa newyorkese sulla trentina, incastrata tra l’alienazione lavorativa aziendale e una duratura relazione BDSM che non sembra poterle più dare qualcosa di nuovo ed eccitante. La vita le è scivolata di mano e la noia sembra averle tolto qualsiasi forma di eccitazione.  Joanna Arnow, che è anche la protagonista di questo insolito quanto autoironico coming of age, ci mostra l’impietosa rappresentazione dell’alienazione identitaria della Liquid Modernity. La regista disarticola il racconto sconnesso delle giornate del suo alter-ego, di cui osserviamo costantemente il corpo nudo e l’espressione rassegnata nei confronti di un “vuoto di senso” rappresentato dalla controparte maschile, capace di provare piacere solo ed esclusivamente attraverso l’umiliazione femminile.

Chiudiamo il nostro personale percorso critico con il vincitore del Premio Cinema Donna 2024 della sezione Nuovi sguardi: Homage, di Shin Su-won. Il film della regista della regista sud-coreana effettua un’interessante riflessione meta-cinematografica attraverso cui assistiamo al racconto di Ji-wan, una regista di 49 anni. Reduce dall’insuccesso del suo terzo film, Ji-wan è in una scomoda situazione anche per il quarto film in fase di lavorazione. Il marito, da cui ha divorziato da un po’, ha smesso di pagarle gli alimenti. La situazione è complicata ma, quando un archivio le chiede di restaurare un vecchio film, la regista inizia un viaggio cinematografico alla riscoperta dei registi che le hanno fatto nascere la passione per la settima arte. Il suo sarà un percorso introspettivo a ritroso, dove i film entreranno in dialogo con la sua personale visione della vita. Nel cinema cerchiamo il senso del nostro essere al mondo, sembra dirci Shin Su-won, la quale affianca a questa ricerca esistenziale una denuncia delle difficoltà nell’essere una donna-regista, tra la mancanza di introiti e la lotta quotidiana per il riconoscimento della propria professione. Il tutto affrontato con la giusta leggerezza e spirito sarcastico.

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