SPECIALE "50 volte il primo bacio" – Il cinema del giorno dopo

L'opera di Peter Segal è un atto d'amore, uno slancio di vita frantumata/replicata/avvolta che esce fuori di sé e si dà, fatta per sbriciolarsi in mano, eterea e potente come una fiamma d'amore, materica e terribilmente evanescente

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50 volte il primo bacio, 50 volte una promessa d'amore, 50 volte un cinema che bacia e non promette nulla, ma dà tutto, incondizionatamente. L'opera di Peter Segal è un atto d'amore, uno slancio di vita frantumata/replicata/avvolta che esce fuori di sé e si dà, fatta per sbriciolarsi in mano, eterea e potente come una fiamma d'amore, materica e terribilmente evanescente. E' l'amore esploso in zone non più perimetrate, un angolo di cielo che sfuma nell'asprezza della terra, per tornare poi a sprofondare nel blu. C'è questo in 50 volte il primo bacio e ancor di più la flagranza sottile e penetrante di un senso per le cose che guarda il mondo senza pelle, senza difese, pronto a soccombere o rigalvanizzarsi senza sosta. E' un approccio alla realtà che muta l'occhio in desiderio, la paura in speranza, la stabilità in trasformazione e procede così lungo un percorso infinito e zigzagante che coglie l'attimo e lo trasforma in eternità. Non c'è posto allora per la memoria, non c'è spazio meno propizio ad accogliere in sé le cartelle infettate dal virus del passato, della morte, dello sbandamento. La Barrymore nel cinema di questo inizio secolo diventa allora simbolo di purezza incontaminata, una lavagna bianca dove Segal, assieme al sublime Sandler, scrive e cancella il corso delle cose, inscenando uno spettacolo che alfabetizza l'anormalità e lo sfasamento, fancendo del fuori sinc l'unico modo per poter davvero abbracciare il mondo. Ecco, nel film di Segal (ma sarebbe più giusto chiamarlo sogno, regalo di nozze, pioggia battente di occhi spalancati che aspettano il ritorno della persona amata) non troviamo neanche più il cinema, per puro e semplice che sia, ma semplicemente una messe scrosciante di appunti di viaggio, di scritte subliminali che graffiano le lacrime della Barrymore, che bagnano i tentativi di Sandler di ri/imporsi di volta in volta come presenza fissa nel tempo, e che proiettano l'amore e il ricordo in quei luoghi sublimi e casuali dove si consuma la nostra vita di tutti i giorni. In un bar di cui conosciamo a menadito uscite laterali e posizione dei tavoli, camerieri e cucine, ma anche su quelle strade asfaltate dove i nostri pensieri incrociano traverse e vicoli ciechi, per poi accorgerci che non siamo compartimenti stagni, che navighiamo in acque comunicanti e che l'amore è lì, basta vederlo, coglierlo, spiazzarlo…Non conta allora stare a parlare di storia, di narrazione, di estetica, perché dentro al filmino che la Barymore vede e rivede ogni mattina prima di alzarsi ci siamo noi, con le paure che ci accompagnano, gli sbagli fatti, i volti dimenticati, le parole che avremmo voluto pronunciare senza riuscirci. Basta uno sguardo, un semplice/assurdo/struggente sguardo che improvvisamente ci fa capitolare nell'universo della relazione, dell'innamoramento, dello scambio. 50 volte il primo bacio mette in circolo germi di pura follia perché è folle e pericoloso disarmarsi di ogni remora e buttare a mare le corazze che ci costruiamo tutti i giorni, quelle assurde armature di cemento armato che Sandler scambia volentieri per filamenti sabbiosi, divertendosi a sgretolarne fisionomia e forma per reinventarla poi nella lucentezza infantile del sogno. In un mandala intessuto di trame sottili, fatte per essere disperse nell'aria nuova del giorno.

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