SPECIALE "IL TEMPO DELLE MELE"- Ricordo e desiderio

La festa orchestrata da Pinoteau e dalla Thompson era un luogo ideale, camera oscura dove ritrovare insieme la ragion d'essere, lo stupore del contatto e l'abbandono nel piacere. E noi ci abbandonavamo con loro.

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Ripensare Il tempo delle mele vuol dire rivedere un capitolo della mia vita, come se questo film dovesse per forza toccare corde autobiografiche, come in fondo qualsiasi altro film dalla chiara impronta "adolescenziale". I miei ricordi si incrociano curiosamente con quelli già manifestati da Simone Emiliani. Anch'io avevo dodici anni quando uscì il film, anch'io lo vidi al cinema Il Vascello a Roma dove ho assistito ad altre proiezioni tra il 1981 ed il 1983 (dopo sono "emigrato" a Roma nord dove la carenza di sale era, come ora, drammatica) che hanno segnato l'immaginario della mia adolescenza come Flashdance e Paradise. Riguardo a tale spazio a due passi dal Gianicolo, volevo ricordare che una volta chiuso non ha subito le tristi metamorfosi di altre sale (di volta in volta trasformate in supermercati, garage, palestre, sale giochi, bingo, etc.) ma è sopravvissuto come teatro diretto con cura e qualità da Manuela Kustermann. Raramente si è nuovamente proposto come sala per film sperimentali (ricordo a metà degli anni '90 un ciclo su Mario Schifano). Erano anni in cui comunque un dodicenne non doveva compiere viaggi improponibili in un qualche multiplex al di fuori del raccordo anulare o dirigersi nel centro storico ma nelle vicinanze del proprio quartiere poteva ancora avere l'imbarazzo della scelta tra film che tenevano nel tempo e tra sale diffuse capillarmente nel territorio. Ricordo l'ultima fase delle commediacce italiane che uscivano ciclicamente in un anno, non solo a Natale, e la voracità di un ragazzino delle medie che, stimolato dagli echi di battute, slang e tormentoni risuonanti nei cortili e nelle classi, cercava di soddisfare le sue prime ossessioni. Su tutte quella del terrunciello Abatantuono, che mi divertivo ad imitare riscontrando un discreto successo (era il periodo in cui Gigi Sabani spopolava a Fantastico ed io per un breve periodo ho sognato di fare l'imitatore…). A seguire Alvaro Vitali, Paolo Villaggio, Renato Pozzetto, Lino Banfi e via rievocando…

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Comunque Il tempo delle mele lo vidi con mio cugino (non si poteva che chiamare Francesco… vero Simone?), di un anno più piccolo di me. Il film era già uscito da qualche settimana, quindi eravamo già imbevuti di Reality, di Sophie, di feste con pomiciate… Eravamo quindi ben predisposti, abbiamo riso per le scene più esilaranti (il bacio con l'apparecchio dentistico, la scena dei Cipster e via dicendo) ma all'uscita avevamo la sensazione che il film non fosse esattamente un film da dodicenni e avesse scavato più nel profondo. In sostanza, avevamo cominciato a cogliere i primi segni delle strategie depistanti del marketing e avevamo avvertito la sensazione di passaggio adolescenziale in cui si deve fare il salto, salto poi rappresentato in fondo dal primo bacio. Baci che prendevano corpo o venivano immaginati/sognati/lavorati nelle feste, dove più che il gioco del semaforo ricordo quello della scopa, della bottiglia e soprattutto della coperta (sotto il velo ci si poteva lanciare con la lei di turno e allo stesso tempo venire sbirciati da sguardi voyeuristici) magari aiutati dalla penombra di una tapparella, quella meravigliosamente omaggiata da Elio e le Storie Tese. Reality di Richard Sanderson era la colonna sonora ideale per i primi baci. Una canzone che ha segnato un'epoca, anche se ricordo che della colonna sonora del film di Pinoteau andava forte il brano dance che nel film accompagna i vari cambi d'abito di Vic prima di recarsi alla festa. Di Sanderson invece conservo un ricordo fortissimo della sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 1984 (ancora gli stranieri potevano competere, con canzoni italiane e non). Il suo italiano a dir poco approssimativo riuscì a rendere imbarazzante un testo di un tal Adelmo Fornaciari: stiamo insieme, stiamo bene, abbracciati qui… Un must o un cult che dir si voglia.


Rivedere a 25 anni di distanza Il tempo delle mele vuol dire ancora farsi rapire dallo sguardo magnetico, quasi perso nel vuoto ma allo stesso tempo accecante di desiderio, di Sophie Marceau, la ragazzina che cercava un lavoretto estivo e si ritrovò star, tra passione e innocenza, tra carnale e diafano, un misto di Claudia Cardinale e Isabelle Adjani di cui il cinema presto intuì il potenziale controverso sfruttandola di lì a pochi mesi nei set balordi di Zulawski, Pialat e Girod (fino a passare dal letto di James Bond vent'anni dopo ne 007 – Il mondo non basta). Ma sarebbe anche un errore limitare il film diretto da Pinoteau alla sola componente Sophie/Vic e al corrispondente portato generazionale. Il tempo delle mele è sì un film sulla gioventù del desiderio ma anche sulle sue stagioni, quelle a venire e quelle andate che si rimpiangono. Non a caso il film è costruito interamente su un meccanismo parallelo, talvolta tangente, dei percorsi di Vic e dei genitori (Françoise e Francois, quasi due lati di una stessa identità). Il confronto vede molto più credibile Vic persa tra tormenti, frustrazioni e stordimenti che i coniugi Fossey, sempre a un passo da goffaggine ed infantilismo (la finta gamba ingessata, la rincorsa in pattini nella discoteca). Brasseur in particolare emerge dall'alto di una carriera prestigiosa (fatta anche di Truffaut e Godard) come fulcro portante in un ruolo che lo ricollega alla tradizione francese più ortodossa. Altro segno decisivo è quello in fase di sceneggiatura di Danièle Thompson, almeno così possiamo desumere dai successivi teatrini del cuore così sofisticati e candidi (fin troppo sottovalutati) di Jet Lag, Pranzo di Natale e soprattutto Un po' per caso, un po' per desiderio. Il palcoscenico è qui dato dalla festa come luogo ideale, camera oscura dove ritrovare insieme la ragion d'essere, lo stupore del contatto e l'abbandono nel piacere. E noi ci abbandonavamo con loro.    


 


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