Stanley Donen, It’s Always Fair Weather

Il nostro fluviale ricordo del regista e coreografo scomparso il 21 febbraio scorso a 94 anni. Partendo dal suo indimenticabile ringraziamento agli Oscar del 1998

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C’è un immagine che non si dimenticherà mai. Non è quella di un suo film. Ma proprio di Stanley Donen. È il 1998. Notte degli Oscar. Riceve la statuetta da Martin Scorsese. Tutti in piedi. Da Gregory Peck a Schwarzy a Robert Duvall. A rendergli omaggio. A rivedere quel filmato, la sua emozione è ancora oggi contagiosa. Inizia a cantare. Poi si mette l’Oscar vicino al viso e improvvisa un perfetto tip-tap. Il palco è in estasi. Robin Williams è raggiante. Non sembra, ma questo è un altro dei suoi film. Un musical sentimentale dove lui stesso è davanti e dietro la macchina da presa. Nella storia degli Oscar, un momento indimenticabile. Dove però sembrano essersi dimenticati di lui. Nel segmento In memoriam, nell’evento di domenica notte scorsa, Donen non c’è.

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Si, si può partire anche dalla fine per parlare di Stanley Donen. Dal suo ultimo lavoro, Love Letters, del 1999, girato per la tv. E visto in Italia, a Roma, quando è venuto per ricevere il Premio Filmcritica. E la rivista, per l’occasione, aveva pubblicato un libro monografico in cui gli aspetti del suo cinema, sembravano moltiplicarsi. Altro che regista e coreografo da musical. Quella era solo una facciata. I protagonisti di quel filmsono Steven Weber e Laura Linney nei panni, rispettivamente, di un politico repubblicano e di una pittrice di successo. Si sono innamorati sin da quando erano bambini. Poi però le loro vite prendono una strada diversa. Mantengono però una fitta corrispondenza epistolare. E, come in una magia di un musical, sono sempre nella stessa stanza. E mentre leggono e parlano delle lettere del passato, partono i flashback.

Il cielo può essere lì. Anche tra quattro pareti. Perché tutta la vita scorre prevalentemente negli occhi e nei ricordi dei protagonisti del cinema di Stanley Donen. Dove ogni gesto ha la precisione di una traiettoria coreografica. Ma, al tempo stesso, c’è una spinta emozionale che dà l’impressione di essere casuale. Uno dei suoi film più belli, Due per la strada (1967), oltre ad essere oggi uno dei suoi titoli più moderni, potrebbe essere anche ambientato tutto dentro un teatro di studio. Con i fondali finti. Invece tutto en plein-air. Nel sud della Francia. Con la coppia formata da un architetto e sua moglie (straordinari i due protagonisti Albert Finney e Audrey Hepburn) in un film amarissimo sul tempo che passa. In un perfetto equilibrio tra damma e commedia. Proprio il rovesciamento del film sentimentale. Qui non viene mostrata la felicità raggiunta. Ma c’è il dopo. La vita di coppia annoiata. Più sono diventati ricchi, meno sono felici. Il cielo è lì. In quel sole accecante. Nei flashback. Perché si, nel suo cinema, è sempre bel tempo. Ma è un tempo nostalgico. Che passa, che lascia i suoi segni. Ma non cancella tutta l’euforia e la vitalità. Forse Love Letters voleva essere anche un tentativo di rifarlo. Nel modo come filma la ‘felicità perduta’. Come nella Hollywood classica. Ma con un sentimento invece capace di entrare come pochissimi nella vita dei suoi personaggi.

Si. il cielo è in una stanza. O anche all’aperto. Non fa differenza. Perchè, davvero, il cinema di Stanley Donen viaggia attraverso il tempo. E frantuma questa contrapposizione interno/esterno. O tra studio e luoghi reali. Non è un caso che il suo primo film da regista, Un giorno a New York (1949), co-diretto con Gene Kelly, diventa fondamentale per la storia del musical perché porta l’azione all’aperto. Le strade di New York, dove tre marinai in licenza cercano la ‘donna ideale’ Miss Metropolis, diventano il palco. I grattacieli sembrano quasi muoversi e far parte della coreografia.

Già Gene Kelly. Che lo nota quando aveva 16 anni nel coro di Pal Joey. Diventa suo assistente. E cura le coreografie di alcuni celebri fillm che lo vedono protagonista. Da Fascino (1944) di Charles Vidor, ma soprattutto uno dei musical più celebri, Due marinai e una ragazza (1945) di George Sidney e Facciamo il tifo insieme (1949) di Busby Berkeley.

La partenza è col botto. Poi mette a punto i meccanismi del genere con il suo primo film da solo, Sua Altezza si sposa (1951) che vede protagonista uno dei miti cinematografici della giovinezza di Donen, Fred Astaire, nei panni di un ballerino che fa coppia con Jane Powell; il ruolo doveva essere di Judy Garland, ma era stata licenziata per assenteismo e dopo questo episodio l’attrice aveva tentato il primo suicidio. Ma poi arriva, sempre con Gene Kelly, il musical dei musical. Coloratissimo, trascinante. Una danza gioiosa di musica e colori. Cantando sotto la pioggia (1952). Pieno di ottimismo e di una irrefrenabile energia. Con l’assolo di Kelly che canta Singin’ in the Rain e il duetto con Debbie Reynolds Would You. Ambientato nel 1927, sembra girato come se fosse girato in quell’anno. Tra omaggi a Berkeley e un dinamismo nei movimenti da cinema muto. Che Donen (nato nel 1924) amava molto. Nella vicenda del passaggio tra il muto e il sonoro (è l’anno del primo film parlato, Il cantante di jazz di Alan Crosland) e dell’attrice che aveva una pessima voce c’è forse un riferimento a John Gilbert, star del muto rovinata dal sonoro.

Dall’euforia alla nostalgia però il passaggio è breve. Dopo un altro musical-commedia in perfetto stile MGM. Sette spose per sette fratelli (1954). Con i tagliaboschi dell’Oregon che mettono in atto una sorta di ‘ratto delle Sabine’, e in cui la maestria di Donen è ancora nella sfida delle scenografie all’aperto. Ma ecco le prime ombre sulla felicità. E dove forse, il suo cinema inizia a trasformarsi e contaminarsi con altri genere. Il terzo e ultimo titolo della coppia Kelly-Donen, È sempre bel tempo (1955), è uno dei film più amari. Dall’illusione dei numeri musicali al Cinemascope, c’è il cinema che sta cambiando. Da quello del passato di Cantando sotto la pioggia a quello del futuro in questo film. Con riferimenti alla televisione e alla pubblicità. E, come si è visto, c’è uno dei temi principali del cinema del regista: il tempo che passa. I tre amici che si ritrovano nello stesso bar, non ha solo un impatto nostalgico. Ma c’è l’impressione che il meglio della loro vita l’hanno già vissuto. Un film troppo in avanti. Che è stato infatti un insuccesso. E ha messo fine al sodalizio con Gene Kelly. Come ha sottolineato Nguyen Trong Binh nella scheda del “Dizionario dei registi del cinema mondiale” (ed. Einaudi) “Kelly cerca di superare gli stereotipi attraverso una coreografia ‘importante’; Donen invece coltiva un’ironia carica di umorismo che prende le distanze dalle convenzione”.

Forse È sempre bel tempo è il dichiarato ‘viale del tramonto del musical. Dove Donen ha mantenuto gli ultimi bagliori anche con Tre ragazze di Broadway (1953). E nel passaggio MGM/Paramount in Cenerentola a Parigi (1957), gli ultimi fuochi del genere amplificano invece un’altra potenzialità del cinema di Donen: quello della nuova ‘commedia sofisticata’. Una commessa (Audrey Hepburn) che diventa la donna immagine di un’importante rivista di moda grazie a un fotografo (Fred Astaire). Quasi con una precisione alla Ernst Lubitsch combinata quasi con la dimensione stralunata di Leo McCarey. Formula vincente si ripete anche nelle schermaglie tra il direttore di una fabbrica di pigiami e la suaoperaia in Il giuoco del pigiama (sempre nel 1957) e poi soprattutto con l’incontro con Cary Grant. Che davvero apre un altra carriera a Donen. Che ha posticipato, appunto, la sophisticated-comedy, di vent’anni. Apparentemente imperturbabile. E impermeabile. Tra equivoci e malintesi. Il loro rapporto comincia la la commedia antimilitarista Baciala per me (1957). E prosegue con Indiscreto (1958). Lui è un economista. Lei un’attrice famosa, interpretata da Ingrid Bergman. Si innamorano ma lui le fa credere di essere sposato. Poi il sodalizio continua ancora con L’erba del vicino è sempre più verde (1960) e soprattutto Sciarada (1963) in cui fa coppia con Audrey Hepburn. Un’ambientazione a Parigi che forse anticipa certe atmosfere di Frantic (1988) di Roman Polanski. E una perfetta fusione tra commedia e giallo. Dove Alfred Hitchcock incontra Gene Kelly. Un meccanismo a orologeria. Che ha sedotto Jonathan Demme per il suo remake, The Truth About Charlie (2002). Ma Hitchcock torna ancora in Arabesque (1966), thriller spionistico che mostra anche la capacità delle molteplici soluzioni visive del cineasta come le prospettive distorte e un clima allucinato. Che si fonde però ancora con l’ironia della commedia.

E nel corso della sua carriera, la sperimentazione dei generi diventa quasi il suo gioco necessario. Perché Donen con il cinema ci ha giocato per davvero. Prediligendo spesso la commedia che cambia nel tempo da Marito per forza (1951) a Quel giorno a Rio (1984). Contaminandola con altri generi come l’avventura farsesca (In tre sul Lucky Lady, 1975) o gangsteristica (Pacco a sorpresa, 1960). O il fantastico (Il mio amico il diavolo, 1967, da cui Harold Ramis ha realizzato il suo remake Indiavolato nel 2000) che affronta più direttamente in Il piccolo principe (1974) – con Bob Fosse (che aveva già lavorato con lui come attore in Tre ragazze a Broadway) come tra i protagonisti nei panni del serpente come corrispondenza musical – e soprattutto Saturn 3 (1980). Ma c’è anche il biopic. Come in Così parla il cuore (1954), quasi una sfida con Charles Vidor, nel sentito omaggio a un cinema di impianto teatrale nel tratteggiare la figura del compositore ungherese Sigmund Romberg. E le pièces teatrali, nel suo cinema, sono rispettate e, insieme, stravolte. Come Quei due (1969) con Richard Burton e Rex Harrison che formano una coppia omosessuale. O anche Ancora una volta con sentimento (1960) con un’arpista (Kay Kendall al suo ultimo film prima della morte per leucemia a 33 anni) che mette in crisi un direttore d’orchestra dal pessimo carattere (Yul Brynner) dopo che decide di andar via.

E alla fine degli anni Settanta, uno degli apici della sua filmografia, Il boxeur e la ballerina (1978). Due film in uno. Come si usava negli anni ’30. Ancora con il tempo che passa. Che riprende il melodramma sulla boxe nel primo episodio e un omaggio a Berkeley nel secondo che è quello più straziante. Con un produttore a cui resta poco da vivere che allestisce il suo ultimo spettacolo. E il bianco e nero di quel film testimonia che il suo cinema non ha tempo. L’ultimo Love Letters sta lì a dimostrarlo.

E in un viaggio nel tempo, passano tutti gli attori del suo cinema. Che Donen ha ricordato nel discorso di ringraziamento agli Oscar del 1998. Partendo da Cary Grant e Audrey Hepburn e Gene Kelly. Proseguendo con Fred Astaire, Frank Sinatra, Gene Hackman, George C. Scott, Elizabeth Taylor, Gregory Peck, Sophia Loren, Deborah Kerr, Robert Mitchum, Jean Simmons, Burt Reynolds, Liza Minnelli, Debbie Reynolds, Cyd Charisse, Albert Finney, Kirk Douglas, Gene Wilder, Jane Powell, Harvey Keitel, Walter Matthau, James Coburn, José Ferrer, Merle Oberon, Walter Pidgeon, Yul Brynner, Kay Kendall,  Rex Harrison, Richard Burton, Doris Day, Dudley Moore, Jayne Mansfield, George Kennedy, Laura Linney e Steven Weber. C’è già tutta la storia del (suo) cinema degli ultimi 50 anni.

Grazia, eleganza, ingegno, innovazione visiva. Queste sono state le quattro parole per il suo Oscar alla carriera. Non bastano. Ma, per Stanley Donen, sono un’ottimo punto di partenza.

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