Terence Davies, voce distante, sempre presente
Un viaggio nella carriera di Terence Davies. Un narratore del tempo, passato e contemporaneo, un osservatore dei mutamenti e un sensibilissimo poeta per immagini
Sono molto orgogliosa di te perché hai avuto il coraggio di dire la verità.
La madre del regista dopo la visione di Voci distanti, sempre presenti.
La memoria di una famiglia e la sua storia sono le depositarie della coscienza collettiva e sono anche all’origine delle cicatrici collettive…
Terence Davies
Il Festival di Torino 2015 ha insignito Terence Davies del Gran Premio Torino e con l’occasione è stata dedicata al regista inglese una bella retrospettiva che ha regalato agli spettatori anche la visione del suo ultimo faticoso film (18 anni per realizzarlo). Un cinema silente e dimesso forse, ma che si radica con forza e attraverso il silenzioso lavoro della memoria, nel nostro immaginario.
Come buona parte degli spettatori italiani abbiamo scoperto il cinema di Terence Davies sul finire degli anni ’80. Il primo film che arrivò nelle sale fu Voci distanti, sempre presenti. Cineclub e circuiti culturali in genere andarono a nozze con un film tanto evocativo nel titolo quanto nel suo contenuto. Terence Davies divenne oggetto di culto e le fiorenti riviste cartacee specializzate dell’epoca cominciarono a riscoprire la sua esile produzione precedente, composta nell’altrettanto evocativo titolo di Terence Davies Trilogy, un contenitore che ricomprendeva Children, Madonna and the child e Death and Transfiguration.
I ricordi della sua infanzia, divisa tra imposizioni di regole religiose e disciplina scolastica, erano organizzati secondo una struttura non strettamente narrativa, quanto piuttosto legata da una logicità sottoposta alle regole di un naturale disordine del ricordo. Il tempo e la memoria sono le ossessioni di Davies che spesso, come accade nell’ultimo film, rielabora i concetti a lui cari trasformandoli in materia narrativa. Il concetto di memoria personale si traduce in memoria del tempo come impronta che dal singolo investe la collettività. Davies racconta quindi il suo passato, ma anche quello che appartiene ad una intera comunità, recuperando con sensibilità assoluta i tratti di un’epica del minimale senza alcuna stanca banalità.
Cresciuto negli anni dell’immediato secondo dopoguerra nella città operaia e complicata di Liverpool, Davies, nonostante le difficoltà, tutte raccontate nei suoi primi film, forse non ha mai agito in rivolta contro le regole sociali. Se c’è stata una ribellione è stata soprattutto sottilmente diretta a combattere i pregiudizi e le convenzioni sociali. Il suo cinema, pur assumendo i toni personali, infatti, contiene i segni e le aspirazioni per diventare oggetto di una memoria collettiva. I temi dei suoi film e i suoi personaggi trovano nella accettazione della sconfitta il senso della loro stessa esistenza, ma il loro sacrificio va ascritto a responsabilità sociali più generali e al vincolo di regole punitive ed escludenti.
Arriva come una deflagrante sorpresa The Terence Davies Trilogy (1976) quasi una autobiografia mascherata attraverso il personaggio di Robert Tucker che vediamo crescere, diventare maturo e invecchiare nel corso dei tre brevi film (46’, 30’ e 26’) che compongono l’opera. Davies racconta dell’emarginazione a scuola e delle sue prime pulsioni omosessuali, dell’inesistente rapporto con i propri colleghi di lavoro e della vecchiaia del suo personaggio che nell’ultimo film vediamo accompagnare al cimitero il feretro della madre.
Fantasia e autobiografia scompongono il reale e in un bianco e nero d’altri tempi. Lo stile assolutamente rigoroso che avrebbe segnato il suo cinema anche nel futuro qui si differenzia in una sorta di successiva fluidità man mano che il personaggio di Tucker cresce e invecchia. Non vi è dubbio che l’opera di esordio del regista inglese, realizzata in età non giovanissima, sia connaturata da una cupezza che fa da sfondo alla costante idea della fine della vita che come una costante si affaccia secondo atteggiarsi differenti in ciascuno dei tre brevi film.
Sarebbe stato l’esordio e poi per un lungo tempo il silenzio, caratteristica frequente nella vita artistica del regista. Il suo sarebbe stato un cinema distante e sradicato da ogni influenza artistica contemporanea e la rielaborazione della propria vita attraverso il cinema non avrebbe mai ricercato le complicità dello spettatore, quanto piuttosto messo in atto la volontà di trasferire nei film la propria vita interiore, quasi come una consegna testamentaria. Senza rivalse e senza altra pretesa che quella di dare corpo e immagine al proprio ricordo.
L’opera di Davies trae elementi di ispirazione dal solitario pessimismo connaturato al suo pensiero e che quindi ne pervade l’opera. Il suo cinema che si articola sempre dentro lo sviluppo di storie in cui si esaltano la rinuncia e il sacrificio hanno per protagonisti i bambini o i personaggi femminili entrambi caratterizzati da una sensibilità più affine alle corde di Davies.
Voci lontane, sempre presenti è il film del 1988 con il quale il regista ha continuato questa sua rievocazione del passato nella Liverpool degli anni 50/60. L’evocativo titolo, che sembra segnare per sempre il cinema di Davies, riecheggia l’ondulato andamento della memoria, non necessariamente pacificatoria, ma sicuramente utile a spiegare il presente che ribolle continuamente nei film dell’autore inglese. I festeggiamenti natalizi e le violenze paterne, funerali, matrimoni e battesimi, corrono sempre sul filo di una memoria interrotta e disordinata e contrappuntata dal canto che sembra spezzare le tensioni all’insegna di una riconquistata solidarietà familiare.
Nel 1992 la ricerca di Davies è proseguita con Il lungo giorno finisce. Il suo percorso autobiografico continua ad essere connotato da una coerenza di intenti non è facilmente riscontrabile nel cinema contemporaneo. Anche qui la storia è quella di un ragazzino, Bud evidentemente lontano dal comune sentire dei suoi coetanei. Appassionato di cinema e di musica percepisce la distanza e l’emarginazione subdola che lo sospinge ad un isolamento non desiderato. Non è un caso che egli vada al cinema solo se trova qualcuno che lo accompagni sia pure un passante occasionale. Il film è strettamente legato al precedente costituendo con la trilogia un compendio autobiografico sufficiente a ricostruire non solo i tratti della poetica del regista, ma anche la struttura, mai romantica, quanto piuttosto affidata al corso della memoria con evidenti operazioni di sottrazione narrativa.
Una struttura del racconto, quindi, che solo apparentemente appartiene alla forma narrativa classica e che invece istituisce, attraverso i salti e le condensazioni della memoria, una autonoma prospettiva e una distinta struttura narrativa in cui le amplificazioni del ricordo e la fatica di un passato non del tutto piacevole (Non sono affatto contento di essere gay, non provo alcun orgoglio omosessuale. Ritengo una disgrazia essere fuori dalla norma, un peso che ha condizionato tutta la mia vita …) corrispondono al clima sonoro, visivo e d’ambiente in cui i questi suoi film sono immersi. Il cinema di Davies quindi tende a costruire il ritratto di una coscienza collettiva guardata attraverso la propria stessa autobiografia. In questo senso non è dunque il banale racconto della sua vita per immagini, né può essere ricondotto ad un esorcismo utile ad allontanare quel tempo. È qualcosa di più ed è anche qualcosa di diverso. È un cinema che rappresenta il passato come costante forma poetica di sguardo sul presente.
Il filo della memoria non sembra interrompersi con il film successivo Serenata alla luna (1995). Ma questa volta il protagonista è David che non è un alter ego del regista. Nel sud degli Stati Uniti, in Georgia, David consola la sua vita afflitta da un padre manesco con le canzoni della zia Mae (Geena Rowlands) un personaggio controcorrente e cantante sul viale del tramonto. Ancora una storia pienamente nelle corde del regista inglese in cui la rievocazione del passato si fonda, come sempre, sul cruciale tempo dell’adolescenza e nel conforto di personaggi femminili assai vicini al suo sentire.
Con La casa della gioia (2000) Davies apre la stagione delle sue (anti)eroine femminili, proseguita con Il profondo mare azzurro (2011) e per adesso completato con Sunset song (2015).
I personaggi femminili di Davies pagano sempre il prezzo delle proprie scelte. Il loro tormento nasce dall’essere fuori tempo rispetto al ritmo del mondo intorno. In questo il senso sembra essere perfetto il testo di Edith Wharton dal cui romanzo Davies ha tratto La casa della gioia. Lily, la protagonista che appartiene alla società altolocata della New York fine ottocento, finisce con l’accettare la sua lenta caduta verso gli strati più bassi della scala sociale la cui causa è da ricercare nel rifiuto di sistemare la propria vita con ricchi uomini verso i quali non prova alcun sentimento. La zia la disereda e le si apre lo spettro della povertà. Hester Collyer è il personaggio protagonista di Il profondo mare azzurro e anche lei è divisa tra il marito rappresentante dell’Alta Corte e un amore profondo per un ex pilota della RAF. Durante una notte tormentata dai ricordi sopravvive ad un tentativo di suicidio. Chris, la protagonista di Sunset song ritrova nella rinuncia all’insegnamento per badare alla fattoria del padre violento e manesco, che muore qualche anno dopo la madre, un nuovo senso alla vita. Vengono l’amore, il matrimonio e i figli in un profluvio di narrazione in cui Davies sembra condurre un’operazione speculare rispetto a quella di Via col vento, la dove la speranza finisce con la fine dell’amore e nessun altro giorno sarà diverso dal precedente. Chris, in Sunset song, guarda alla vita dalla sua fattoria in Scozia vivendo i suoi sentimenti e la sua parabola umana nel piccolo mondo che resta nel suo sguardo, nella malinconia di ciò che non è stata capace di realizzare. In questo sgomento esistenziale si riconosce tutta la poetica matura di Terence Davies.
Nel 2008 Davies, attraverso il recupero di preziosi materiali d’epoca in una rielaborazione in cui si serve anche delle musiche realizza un film sulla sua città e prende forma Of time and the City. Un omaggio a Liverpool, visionaria elegia poetica che ripercorre le trasformazioni della città e nel contempo contribuisce a confermare la poetica di Davies come custode e narratore di una memoria che non si limita alla propria vita personale, ma il cui occhio indaga sul tempo come forma di vita collettiva.
Terence Davies resta quindi un narratore del tempo, passato e contemporaneo, un osservatore dei mutamenti, un sensibilissimo poeta per immagini che ha bisogno di attingere alla propria storia per essere in grado di raccontare i sentimenti più segreti dei suoi personaggi.