"The Corporation", di Mark Achbar e Jennifer Abbott

Due ore e venticinque minuti per scuotere gli spettatori dall'intorpidimento. Troppi? Ma, nel documentario, gli intervistati sono d'accordo: qualcosa, nel sistema delle corporation, non funziona. E Michael Moore ci mette il (suo) carico.

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Il faccione paffuto e rubicondo di Michael Moore occupa un terzo della larghezza dello schermo. La sua entrata in campo tra i testimoni delle nefandezze delle compagnie multinazionali non dovrebbe stupire un pubblico italiano che ha imparato a conoscerlo almeno da Bowling a Columbine. L'onnipresente berrettino da baseball posato sul testone testimonia la volontà di dichiarare la propria appartenenza ad un sistema; un sistema sociale complesso, come quello statunitense, che prima ancora di essere sociale è un sistema produttivo. Un sistema che il suo lavoro documentaristico più o meno fazioso (più o meno dichiaratamente fazioso), ha posto e pone costantemente in contraddizione con sé stesso. Quel berrettino significa: "Sono americano, e non voglio vergognarmi di esserlo". Ecco il senso della testimonianza di Moore resa in questo lungo – troppo lungo? – lavoro di ricerca, per parole ed immagini, sulla genesi e l'evoluzione dell'apparato delle multinazionali che si chiama The Corporation. Due ore e venticinque minuti nel corso dei quali gli artifici retorici del videolinguaggio vengono utilizzati allo scopo di scuotere dall'intorpidimento lo spettatore che non si fosse ancora reso conto della spirale concentrica, del gorgo rappresentato da un'organizzazione della produzione basata sulla genesi di bisogni non primari, sulla ripetizione coattiva di abitudini di consumo, sullo sfruttamento intensivo dei fattori della produzione (manodopera in primis), sull'aumento indefinito del margine di profitto, sulla produzione ingannevole di ambigui messaggi di appartenenza ad un clan più o meno numeroso di persone che condividono uno stile di vita: strategie elaborate a tavolino da alcune decine di grandi società, che condizionano col loro operato i destini di singoli individui come di moltitudini di persone; società che, per un curioso scherzo della giurisprudenza, si videro riconoscere centocinquant'anni fa negli Stati Uniti molti dei diritti delle persone fisiche, non condividendone però gli stessi doveri.

Presidenti pentiti, amministratori delegati autoassolventi ed innocentisti, giornalisti colpevoli di parlare troppo o – a seconda dei casi – troppo poco; spioni industriali, scienziati con un occhio chiuso (quello che guarda dentro al microscopio) e scienziati con gli occhi spalancati ed inorriditi; un premio Nobel per l'economia, apostolo delle dottrine monetariste – quelle per cui la diminuzione dei tassi d'interesse risolve qualsiasi crisi economica: basta "lasciar fare" il libero mercato… – che si permette ancora di sorridere ironicamente, nonostante abbia davanti agli occhi il fallimento delle proprie teorie; una esperta di marketing per l'infanzia col volto della strega di Biancaneve (quella, almeno, non chiedeva clemenza nascondendosi dietro alibi del tipo "in fin dei conti è solo il mio lavoro"); tutti lì, a testimoniare i misfatti delle corporation, delle industrie dei logo, tutti d'accordo nel sostenere che sì, in effetti qualche problema le multinazionali ce lo devono avere: i colpevolisti, documentando la volontà delittuosa delle azioni delle industrie; gli innocentisti, sostenendo che gli effetti collaterali dell'operato delle corporation – sfruttamento di intere popolazioni, degrado dell'ambiente, inquinamento, degenerazione dello stato di salute delle persone – siano il rovescio della medaglia del vivere moderno occidentale.

Nessuna ironia, nessuna sottigliezza, nessuna speranza di svago: centoquarantacinque minuti di spinte all'autocoscienza dello spettatore, al termine dei quali ci si promette di non bere mai più un goccio di Fanta (chi avrebbe mai pensato a collegare questo marchio così rassicurante a qualcosa di più antipodale dei crimini nazisti) o dai quali si esce intravedendo ombre oscure tra le righe bianche ed azzurre del logo IBM… La chiusura è delegata ancora a Michael Moore, che conduce una beffarda osservazione sul senso dei suoi film – sul senso di questo film – invocando dentro di sé gli dei della ragione e del coraggio, affinchè almeno una piccola percentuale degli spettatori esca dal cinema con più consapevolezza, più spirito combattivo, più fiducia nella potenza della fionda di Davide.

Titolo originale: The Corporation
Regia: Mark Achbar, Jennifer Abbott
Interpreti: Noam Chomsky, Naomi Klein, Michael Moore, Milton Friedman, Oscar Olivera, Mark Kingwell
Distribuzione: Fandango
Durata: 145'
Origine: Canada, 2003

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