The incident, di Isaac Ezban

La finitezza umana che si perpetua e che ci fa atterrire davanti all’inesorabile (im)mutare del tempo. Un inedito messicano che riafferma la propria natura di favola nera fuori dal tempo

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In quella linea di confine tra il tempo infinito e l’esistenza finita, Isaac Ezban prova a raccontare la finitezza umana che si perpetua e che ci fa atterrire davanti all’inesorabile (im)mutare del tempo.
The incident è la pietra d’inciampo dell’esistenza, il meccanismo che si inceppa e la ruota che non rispetta tutti gli ingranaggi e salta un giro, o forse due, ma continua la sua corsa.
Due fratelli, piccoli malviventi sono inseguiti dal poliziotto Molina, provano a fuggire ma restano intrappolati nelle scale dell’edificio; una famiglia va in vacanza, ma la strada che la loro auto percorre si rivela una gabbia che li recluderà per sempre. Il tempo e lo spazio tra le due storie sembra azzerarsi, separati soltanto da un invisibile velo che ne determina la contemporaneità.
Thriller fantastico, costruzione fantascientifica divisa tra registro di una consueta realtà e uno sviluppo narrativo che assume via via i tratti di un incubo. The incident ci obbliga alla riflessione sull’eterna combinazione degli elementi che determinano l’esistenza che altro non è che lo scatenarsi dell’imponderabile. Ciò che nel deviare, al principio millimetricamente, diventa, con una inarrestabile progressione geometrica, una traiettoria del tutto differente e lontanissima da quella originaria.
L’incidente, anche attraverso un originale uso dello spazio e una claustrofobia genetica che costituisce, in fondo, il senso dell’intera operazione, riafferma la propria natura di favola nera fuori dal tempo e grazie ad una ripetuta citazione di Time out of joint (in Italia con diversi titoli Il tempo spezzato, L’uomo dei giochi a premio, Tempo fuori luogo o Tempo fuor di sesto) di Philip Dick sembra rivendicare quell’ascendente fantascientifico pessimista che apparteneva alla scrittura del grande autore americano. La storia del romanzo ha già ispirato The Truman show e racconta di una manipolazione del destino umano. Isaac Ezban sicuramente attratto dall’idea di una umanità eterodiretta, sembra lasciare lontana dapprima l’ipotesi affinché l’incubo faccia maturare l’idea di un horror sui generis, per

scompigliare le carte in un finale sicuramente un po’ d’effetto, ma anche sorprendente per il nuovo assetto della storia. Con il suo lavoro il trentenne regista messicano ha saputo fare di ristrettezze virtù, tanto che il suo film, pur con budget limitato, riesce a restituire l’inquietudine e l’orrore, soprattutto grazie ad una scenografia che diventa inquietante e dentro i canoni di una costante oppressione che predomina, di un assoluto straniamento da ogni realtà contingente da ogni tempo e soprattutto da ogni forma di razionalità che possa spiegare i termini di questa fantasia.
Pienamente legato ad una visione più che pessimistica, quasi distopica, del presente, ma soprattutto del futuro, The incident, con la sua riflessione umanistica, si trasforma in un piccolo saggio sulla fragilità umana e su un destino che sembra scritto da un’immanenza superiore. Un cinema che, in fondo, adattandolo ai tempi e alle situazioni, si fa interprete di teorie che non sono religiose, ma che in qualche misura appartengono ad una riflessione sul destino dell’umanità e che possano teorizzare lo schianto definitivo del genere umano e l’immutabilità del futuro. Cinema a suo modo trascendente, di una trascendenza terrena, privata di alcuna, pur lontana, presenza divina e senza alcun anelito verso un’ascesi morale. Il film di Ezban rimane tutto dentro la dialettica umana, dentro la spirale di una immutabilità del destino e di una diabolica coazione a ripetere. Interrompere questo flusso significherebbe superare la concezione dell’immanenza e restituire dignità alla vita umana.
Il regista messicano riesce a risolvere abbastanza agevolmente questo compito, non pretendendo troppo da se stesso, lasciando che questi frammenti intuitivi, le schegge di senso del racconto, emergano piuttosto dalla storia, dalle storie, più che da una elaborazione tanto autoriale quanto pericolosamente didascalica. È per questa ragione che il suo film, così disperato e così logico nella sua evoluzione, tanto inattesa quanto coerente, finisce con l’aprire interessanti prospettive dovute ad uno sguardo ispirato sicuramente da una accumulazione di suggestioni e, al contempo, propone una specie di soprannaturalità umana che nulla ha a che fare con il divino. Né questa efficacia narrativa, che residua anche dopo la visione, si può dire che venga sminuita da una esplicazione del meccanismo che innesca un’altra e nuova rigenerazione del destino cui sono soggetti i personaggi. Anzi, ci pare che proprio il necessario svelamento dell’automatismo, altrove innescato, così spaventoso per chi lo subisce, ne costituisca la struttura essenziale e il suo avveramento restituisca pieno senso alla narrazione, raddensando i temi che prima apparivano sparsi e disordinati nel plot che, a sua volta, riacquista improvvisamente la piena e solare luminosità di quella che può essere detta la sua interiore verità.

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