Tomica e le vie segrete della Sibilla. Incontro con Andrea Frenguelli

Abbiamo incontrato il regista per farci raccontare la realizzazione del suo documentario sulla storia alpinistica dei Monti Sibillini

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Le montagne osservano, indicano la via, nascondono il loro aspetto tridimensionale. Guardarle dal basso, contemplarle oppure sfidarle, significa prendere coscienza che non può esistere unidimensionalità. Tomica e le vie segrete della Sibilla racconta, nella forma documentario, la storia alpinistica dei Monti Sibillini, di uno spazio d’avventura, tra l’Umbria e le Marche segnato dai continui sconvolgimenti del terremoto. Montagne in divenire. Lo spunto viene dalla prima ripetizione in libera della sua via di arrampicata sportiva più impegnativa – Tomica, per l’appunto (dal nome dei tre scalatori perugini che l’hanno aperta: Carlo Baccarelli, Michele Belia, Antonio Gialletti) – affacciata sui laghi di Pilato, nel cuore del Parco Nazionale. A compiere il viaggio e l’ascesa è Gabriele, giovane alpinista cresciuto nel mito di un percorso leggendario e inviolato consapevole di muoversi lungo un filo rosso che si intreccia con le storie di ieri, degli uomini e delle donne che quelle vette le hanno raccontate, filmate, fotografate, nel tentativo costante di cogliere l’aura di mistero che avvolge chiunque si confronti con l’assolutezza della natura. Il regista Andrea Frenguelli (selezionatore del Trento Film Festival e già vincitore all’ASS Film Festival con Uomini e fuochi – il rito dei glorianti di Scanno) racconta lo smarrimento che solo la bellezza e le tragedie naturali possono produrre, mescolando materiale d’archivio “crudo e sporco”, a volte con l’uso di action cams e cellulari, dando vita a una ricostruzione cinematografica di avvicinamento alla parete di roccia da conquistare. Un cinema muscolare e contemplativo, dove l’immagine si può “riavvolgere e capovolgere” secondo la stessa intenzione che ha guidato Werner Herzog per il suo Nomad dedicato alla figura dell’amico e grande esploratore Bruce Chatwin: un condensato temporale in cui presente e passato convivono e dove il montaggio si fa mappa e poi orientamento nel mondo. Scriveva in tal senso lo scrittore e viaggiatore di Sheffield ne Le vie dei canti: “Si credeva che ogni antenato totemico nel suo viaggio avesse sparso sulle proprie orme una scia di parole e di note musicali, e che queste Piste del Sogno fossero rimaste sulla terra come ‘vie’ di comunicazione fra le tribù più lontane. Un canto faceva da mappa e antenna. A patto di conoscerlo, sapevi sempre trovare la strada”. Tomica vuol testimoniare che queste vie esistono ancora.

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Andrea, Tomica è un progetto che ti ha impegnato per due anni. Ma la tua storia personale con queste montagne dura da tutta una vita..
Raccontare questi luoghi era un obiettivo che inseguivo da tanto tempo. Uno di questi, al quale stavo lavorando, voleva essere un’indagine molto concreta del tessuto economico della Valnerina e dei Monti Sibillini. Un progetto complesso che il terremoto ha completamento congelato. Lì ho perso la volontà di proseguire, mi sembrava che continuando avrei partecipato a una sorta di teatro pornografico del dolore e non lo volevo. Tomica è un totale cambio di paradigma, un’avventura fisica e umana, direi quasi muscolare, alla quale ho dato dignità con i mezzi più vicini alla mia formazione, ovvero la storia e l’antropologia culturale.

Parliamo della “forma” del tuo documentario.
A me interessava tanto celebrare l’editoria. Per me è più interessante la storia dell’editoria che quella alpinistica vera e propria dei Sibillini. Non volevo limitarmi ad elencare le imprese: un elenco non è interessante, mai. Sul linguaggio posso dire di non aver ceduto alla fiction: della musica, per dirne una, faccio un uso tendenzialmente narrativo evitando un tappeto sonoro, un pastone. Ma questo è anche un film con tantissimo linguaggio web e molti dei suoi espedienti, che sono certamente cinematografici, ma che contribuiscono ad architettare una struttura di visione che – provocatoriamente – potrebbe benissimo essere divisa in quattro clip.

Camminare, scalare, imprese del presente e del passato. Tomica è anche un grande lavoro d’archivio.
Come ho detto la mia è una formazione da storico: il primo lavoro della mia vita è stato catalogare le tombe dei partigiani in Valnerina per conto dell’Isuc. Un lavoro splendido, la cui emozione sento ancora fortissima oggi. Per me era inevitabile quindi giocare col footage. Ho avuto tre fonti principali. Il fondo Bacco (Carlo Baccarelli) era forse il più semplice: contiene prevalentemente i vari tentativi di questa chiodatura (Tomica); il fondo degli ascolani era più ampio e il materiale era in ottimo stato essendo stato tutto digitalizzato; il più interessante dal punto di vista archivistico è stato quello messo a disposizione da Paola Gigliotti storica apritrice di vie invernali sui Sibillini negli anni ’70 e ’80. Con lei ho potuto lavorare su un materiale sterminato e scegliere, scandagliare, indagare. Non avevo bisogno di foto di cronaca ma di colore, per avere un paesaggio leggendario, magico, stregonesco, sono andato di pancia, cercavo un impatto visivo immediato, un colpo immediato ai sensi. E’ stata una ricerca d’archivio di emozione, per nulla scientifica.

Murakami nel suo ‘L’arte di correre’ si sofferma su quella che per lui è un’aderenza strettissima tra atto creativo e sforzo fisico/atletico:“Se non scavo in profondità piccone alla mano non arrivo alla sorgente della creazione”. Ti riconosci in questa visione?
Parto col dire che fare del cinema indipendente è già di per sé uno sforzo fisico, immane. E lo è sempre. Nel caso di Tomica trovo che le parole di Murakami siano molto calzanti: ho sentito l’atto fisico del fare il film molto parte dell’atto creativo. A guardare indietro, al lavoro che è stato fatto in questi due anni, mi spaventa quantificare la mole di fatica fisica che ho dovuto impegnare.

Nel film ricorre costantemente tra i tuoi personaggi il termine “avventura”. Ma che avventura è stata?
Se ho fatto un film sui Sibillini è perché amo l’alpinismo disorientante, quello che ti porta in posti di difficile lettura. Quando con Gabriele abbiamo deciso di fare un film attorno a questa impresa la sapevamo che parola chiave sarebbe stata proprio ‘avventura’, che è poi la gioia del perdersi. Tomica è una via molto moderna che si svolge però in un ambiente dove i contatti sono difficili, dove c’è incertezza e non si è mai certi che tutto potrà andare esattamente come hai previsto. Queste montagne, per chi le esplora, conservano ancora questo grado di mistero e eccitazione.

Il cuore della visione è rappresentato da Gabriele che, solo, cammina attraverso valli e sentieri, verso la vetta da scalare. Movimento e fatica fisica, ma pure ricerca filosofica. Come diceva Kierkegaard: “Io camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo. Perciò basta continuare a camminare e andrà tutto bene”. Volevi che fosse questo il messaggio finale?
Quando la gente si aspetta che ti mostri subito la muscolarità della faccenda, ecco la camminata che è una metafora di quello che c’è dietro a un’impresa del genere: preparazione fisica, mentale, spirituale. Mentre nella prima parte del film l’attesa dell’arrampicata è appunto data da Gabriele che cammina; nella seconda ci sono le montagne che osservano Gabriele. Un ribaltamento: lui sale e loro ferme. Rappresentano non solo l’immobilità, ma pure l’indifferenza della natura alle attività umane. La camminata è quello che bisogna sapere e conoscere prima di affrontare una via del genere. Le vette hanno, invece, lo stesso identico sguardo che apre Aguirre: il furore di Dio incombe.

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