TORINO 23 – Paranoia e rivoluzione…

Borderline della visione, al limite della contesa esistenziale, tra le nevrosi che scivolano nelle psicosi dei senza volto, come i rivoluzionari e i paranoici postmoderni. Due istanze che accostate non farebbero piacere né a quelli che si armano di ideali e proiettili, né a chi è sull'orlo di un'uscita irreversibile dalla realtà…

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A Torino però non si mischia chi combatte per la libertà e chi invece della libertà degli altri è vittima, semmai si procede in divenire, lasciando che il mondo delle immagini (almeno quello) molesti il pensiero lineare, rigido e corrosivo. Herzog, tra i più magici borderline del cinema, documenta e ricommenta la "mente silenziosa" dell'uomo/grizzly, che si (con)fonde nella natura degli istinti giusti e non feroci, armonicamente caotici, ostili e omicidi. Walter Hill, in Southern Comfort (I guerrieri della palude silenziosa), fa un passo indietro per ripetere la storia, fermandola per sempre come quella stella militare dell'ultimo fotogramma stampata sullo schermo, come la palude della Lousiana, melma reazionaria che attanaglia ancora di più che prova a dimenarsi. I paladini di "paranoia e rivoluzione" sono due quest'anno: lo statunitense Lodge Kerrigan e il filippino Lav Diaz. A Kerrigan, Torino dedica una "personale" con i suoi tre lungometraggi: Clean, Shaven e Keane (presentato a Cannes 2005). Dalla schizofrenia, gravi allucinazioni, disturbi della percezione dei primi due titoli, al realismo derivato dai turbamenti emotivi che scardinano il montaggio e il pianosequenza (ri)vela il disagio. Kerrigan non è un pittore della realtà disperata e della fragilità mentale dell'uomo, costruisce artigianalmente il suo quadro mai empio di cromatismi e narrative manieristiche. Ha la forza di seguire percorsi contromano, seminando emozioni mai totalmente in simbiosi con il segreto dell'animo umano. Le tonalità creative dello sguardo si fanno più fredde proprio quando sembra che il tunnel buio della disperazione in fondo prospetti speranza.

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Quindi, l'omaggio al cinema filippino, sconosciuto e coraggioso, che spinge al massimo l'arte del raccontare, per spigare il mistero dell'esistenza del genere umano. Comprendere la morte e la solitudine, comprendere la lotta. Comprendere la filosofia di un fiore che cresce nel fango. Il cinema di Lav Diaz, giovane e straordinario regista, esplora e affronta tutte queste sfide, facendo provare la stessa agonia che la sua gente da sempre subisce. Lav Diaz descrive l'insostenibile peso della colpa di coloro che cercano la redenzione. In sette anni, sette film, cercando nuovi territori formali e tematici e sfidando l'eredità lasciata dal grande Lino Brocka (al quale il festival dedica una retrospettiva), regista degli anni sessanta/settanta e ottanta. Quattro i film di Diaz presenti, tra cui la colossale opera di 643 minuti, grande successo e già uno dei casi cinematografici dell'anno, Evolution of a Filipino Family. Nove anni di riprese per raccontare l'epica saga della famiglia Galiardo, tra il 1971 e il 1987, gli anni del regime di Marcos. In ogni fotogramma di Lav Diaz si vede il peso della storia, del passato; la macchina da presa ferma, decisa, rivela verità scovate sotto la superficie e indica la strada per la liberazione, come Kerrigan che nella sua pista di pattinaggio in Keane, fa scivolare la percezione dall'apparente e azzerante bianca superficie, alla  realtà blu, se ci si perde tra i colori circostanti…     

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