TORINO 25 – "The Tree of Ghibet" di Amedeo D'Adamo e Nevina Satta (Lo stato delle cose.).

The Tree of Ghibet di Amedeo D’Adamo e Nevina Satta non è solo un film, ma anche un laboratorio, così per la sua origine come per il suo esito finale, il prezioso lavoro sull’immagine e il “realismo dell’immaginazione” sono alla ricerca di una più consona misura espressiva per questa loro “fiaba viscerale”.

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Il progetto di Amedeo D’Adamo e Nevina Satta non è stato soltanto quello di realizzare un film, ma anche quello di realizzarlo con i bambini che poi al film hanno preso parte. Lo stato delle cose è la sezione del Festival che accoglie questo loro lavoro, The Tree  of Ghibet, definito dagli stessi autori come una “fiaba viscerale”.

Camerun, D.J., un bambino di otto anni, è accusato di essere posseduto dai demoni ed è per questo che viene cacciato da casa, le sue vicissitudini e la sua vita per strada sono il racconto attorno al quale è concepito il film.

Ci si è già ritrovati a riflettere su un film che aveva come centro di interesse l’attenzione per bambini costretti a crescere in una realtà violenta e dall’incerto futuro, con The Tree of Ghibet ci si ritrova  a farlo e qui, parzialmente, valgano le stesse considerazioni che hanno accompagnato il giudizio sul film della Colusso. D’Adamo e Satta utilizzano due registri espressivi, l’uno, quello più prettamente documentaristico più misurato e l’altro, che definisce le parti più prettamente narrative. Il tentativo è quello di percorrere una sorta di terza via per un film che non vuole essere né l’uno, né l’altro, anche se, in fondo, lo scopo è quello di documentare per sensibilizzare. La condivisione della realtà, l’essersi calati all’interno di una condizione di estremo disagio contribuisce alla disponibilità dei giovanissimi protagonisti davanti alla macchina da presa, ma pesa nel momento in cui nella distanza dalla materia si sarebbe dovuto ricercare una misura espressiva che, all’interno di quel “realismo dell’immaginazione”, come è stato definito lo stile utilizzato, e nella ripulitura del materiale possa trovare una strada non soltanto per una maggiore sintesi, ma anche una forma che restituisca maggiore compattezza al prezioso lavoro che è stato fatto sull’immagine.

Le premesse ci sono tutte, il lavoro della coppia di registi, per loro stessa ammissione, non è finito sentendo l’esigenza di intervenire ancora sulla “copia lavoro” presentata al festival.

The tree of Ghibet quindi non è solo lo scandalo dell’abbandono di quelli che diventeranno giovani vittime di un sistema inaccettabile, ma anche uno spazio che, in forma di laboratorio, così per la sua origine come per il suo esito finale, fa bene al cinema e ci fa immaginare che forse un altro cinema è possibile.

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