VENEZIA 61 – "Confituur", di Lieven Debrawer (Giornate degli Autori)

E' ben chiara la propaggine in ci si addentra: i corridoi dell'anima, di cui svelare le pieghe seguendo però un percorso a ritroso a partire dal paradosso di un corpo statico che genera caotiche interdipendenze e intorno al quale, come satelliti confusi, ruotano i personaggi e le scelte da essi compiute.

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L'esordiente sezione dedicata agli autori indipendenti si è aperta  con Confituur, il secondo film del giovane Lieven Debrawer, qui in veste di regista/sceneggiatore/produttore. Risale al 2001 il suo primo lungometraggio, Pauline & Paulette, in cui già trapelava il tema caro all'artista belga e che ora egli riscopre e ripropone all'attenzione: l'handicap. E' ben chiara la propaggine in cui il film si addentra: i corridoi dell'anima, di cui svelare le pieghe, a tratti delicatamente, altre volte bruscamente, seguendo però un percorso a ritroso a partire da un cardine ben preciso, un magmatico centro gravitazionale, ovvero dal paradosso di un corpo statico che genera caotiche interdipendenze e intorno al quale, come satelliti confusi, ruotano i personaggi e le scelte da essi compiute. Protagonista è il corpo, e l'anima che esso rivela, che attraverso di esso trapela; Il corpo di Gerda (Viviane De Muynck): una pesante, semi-inerte appendice fangosa che l'impeto irrefrenabile della frustrazione scuote e fa ribollire, inutilmente. Un corpo quasi immoto, collettore di rabbia e dolore, sovrabbondante mescolanza di risentimento e disperazione, nesso inestricabile che vincola materia e psiche in unico, sofferente, grumo esistenziale. E' dalla costrizione del corpo, è dalla inevitabile materia che tutto si sprigiona come miasmi che pervadono convulsamente i circostanti. Da tale nucleo fondante Debrawer ordisce un ricco microcosmo emotivo colto negli istanti più burrascosi, il climax preparato da anni di gesti irrisolti ed errori sottaciuti. E tutto ciò senza scadere, da un lato, nel facile pietismo e senza voler propugnare, dall'altro, una morale cinica e oscurantista. Il suo occhio semplicemente guarda ad una realtà (aspra!) e sceglie di smussarne appena gli angoli, senza illusioni, con una ben calibrata dose di ironia ed il vagheggiamento della possibilità che talvolta, dalla minaccia di uno sfaldamento dei legami, possano scaturire nuovi equilibri.

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