VENEZIA 62 – "Texas", di Fausto Paravidino (Orizzonti)

Fausto Paravidino, giovanissimo drammaturgo (è nato nel 1976) all'esordio al cinema, compie un'apparente analisi "generazionale", mai solo grido disperato o sogno visionario. Come un'evocazione mitica, "Texas" è una periferia (poco) immaginaria, un filtro della catena esistenziale, un incrocio estasiante tra il non-luogo e l'autostrada.

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Il non-luogo del cinema, che si trova a disagio e alienato in sala come nelle più remote periferie della percezione e del godimento per gli occhi. Fausto Paravidino è un giovanissimo drammaturgo (è nato nel 1976) all'esordio per il grande schermo, felice e soddisfatto di salutare un'importante co-produzione Fandango-Medusa. Nato a Genova è cresciuto in provincia di Alessandria (dove il film è ambientato) fino a pochi anni fa gli interessava solo il teatro per cui ha scritto già sette commedie. La periferia è il centro anche della sua scrittura teatrale fatta di poche battute in cui si addensano ritratti vivi e vitali della sua generazione. Ma il suo film solo apparentemente è "generazionale": in realtà solo dal di fuori lascia questa impressione presto sfuocata da una certa assolutezza d'intreccio che combina età svariate. Come un'evocazione mitica Texas è una periferia (poco) immaginaria, un filtro della catena esistenziale, un incrocio estasiante, l'appendice di un'autostrada che non sta ferma mai, distesa  inglobante del pensiero unico e dominante . La periferia agognata è una dimora, uno stato divoratore: non un limbo, un non-luogo desertificato e alienante. Scoprire che il cinema privo di una chiave di lettura lineare (anche se precostituita), non ha uno schermo protettivo di sbarramento, (dov'è la campagna?), saltato tra la città e la sua realtà suburbana. Tutto è stato rimpiazzato da un'infinita quanto inattaccabile dissolvenza funerea, dove il cinema si sente e si subisce. Si subisce perchè quei luoghi sono i propri, perchè però lo sguardo si lascia contaminare da estetiche e narrative "accentratrici", calando ineluttabilmente miscele inquietanti ai limiti dell'esplosione, tra spazi desiderosi di violare stereotipi sociali. Non c'è una storia, ma un' evento, un fatto, che ingloba più vite lasciandole respirare senza asfissiarle tra i pochi silenzi rivelatori e scatenanti. Giovani, adulti e meno giovani si ritrovano a vivere contemporaneamente l'orgoglio e il senso di colpa della periferia che ti lasciano (im)mobile e (ir)risolto. L'esordio alla regia non è un grido disperato e neanche un sogno visionario: per adesso resta ancora semplicemente il timore di osare o il "buon senso" di dosare. Per chi cerca uno spaccato della provincia italiana tra depressione e degrado, per chi si aspetta un'opera sorprendentemente matura e complessa, immagini invece una forma di cinema teatrante restando nei limiti della progettualità autoriale.   

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