VENEZIA 63 – "El cobrador, in God we trust" di Paul Leduc (Orizzonti)

E' messicano il regista di "El cobrador", messicano fin nelle midolla. E si avverte nel calore affettivo con cui tratta il vissuto quotidiano, i volti del sua terra, i suoi colori. Ma tutto l'urlo e il furore del regista Paul Leduc rimane gesto imploso, forma confusa

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Non c'è mai limite alla rabbia di un artista. Mai abbastanza quando consapevole di fare il Don Chisciotte, sfoga il suo dolore contro il vento. E poi se lo sente tutto dentro. Proprio per questo tutto l'urlo e il furore del regista Paul Leduc rimane gesto imploso, forma confusa, nel suo film "fuori concorso" presentato quest'anno a Venezia: El cobrador, in God we trust. Non c'è mai limite alla rabbia; peccato suoni un rantolo al posto delle idee. Trama intraducibile. Se può bastare al centro della storia una miniera in Brasile, storie parallele tra America e Argentina intorno ad una serie di delitti. Da un lato un nero vittima emblema del sistema "capitale" – anch'egli assassino per rabbia incontrollabile – e dall'altro un cinico impotente, killer "old style", con la sua "macchina infernale" – uno scuro jeppone di gran lusso – pronto a martoriare la prossima puttana. Al centro una ragazza, fotografa di professione, ideologa di aspirazione. E grazie alla sua Nikon, Leduc pedina con pretesto il corso della storia, lasciando silenzi imbarazzati sui pestaggi dei police man sulla folla che protesta. Lei e il nero arriveranno a scrivere persino un manifesto: "non siamo narcotrafficanti, non siamo terroristi. Quello che chiediamo è solo cibo, una casa, una camicetta pulita, dei figli, il telegiornale..". Ma qui il gioco si fa pericoloso e da ambiguo diventa inaccettabile. Come un buon film veneziano, anche stavolta rispuntano in coda le Due Torri, quasi a dire al mondo dei cattivi: adesso siamo pari.

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Qualunquismo. Solo su un irritante qualunquismo d'accatto poteva reggersi una storia così confusa, scritta in fretta, arrogante, che cerca toni più leggeri in alcuni momenti di umorismo. Ma il feto spremuto nella tazza del bagno fa rimpiangere Creep, chirurgo più nobile ed esemplare. "In God we trust" un altro degli sfoghi personali. Vero attenzione, tutto vero. E magari stavolta non riesce appena a non stonare: conosciamo finalmente Paul Leduc. Ma nessuno gli dà retta: persino dalla sala, un timido fiacco applauso, che la dice lunga, anche tra i più stanchi, irreprensibili "no global". Riuscitissime le ambientazioni in esterno e estremamente curata l'oggettistica, l'arredo e il sapore degli interni. E' messicano il regista di "El cobrador", messicano fin nelle midolla. E si avverte nel calore affettivo con cui tratta il vissuto quotidiano, i volti del sua terra, i suoi colori. Ottima la resa cromatica, impastata per la luce notturna con limpidi ed efficaci sguardi metropolitani. L'attrice Antonella Costa acquista via via sempre più spessore, grazie a tonalità espressive di indiscutibile professionalità. Le istantanee scandiscono di tanto in tanto la noia del racconto: sospiri vitali, irrinunciabili per ogni spettatore. Paul Leduc non sarà mai il discepolo scomodo, che tutti noi vorremmo incontrare. E' quel triste ragazzo di belle speranze, seduto all'ultimo banco di ogni classe, che alza troppo la voce, ma non gli arriva il fiato. E si impappina di fronte al "professore".

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