VENEZIA 64 – "Karoy", di Zhanna Issabayeva (Settimana Internazionale della Critica)

KaroyUn cinema fatto di materia quello di Karoy, che segna il debutto di Zhanna Issabayeva come sceneggiatrice e produttrice, oltre che come regista. Nessuna nuvola, nessun giudizio, solo lo scorrere continuo dei giorni, dall’alba al tramonto, fino all’imbrunire. Dopo tanta strada, dopo tanto dolore, una porta si apre
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KaroyKaroy, il film kazako della Settimana Internazionale della Critica, ha come protagonista Azat. Un uomo di cui tutti parlano male in paese, che non perde occasione per approfittarsi degli altri. Mentirebbe a chiunque, pur di ottenere qualcosa per sé stesso. Macina inganni ad ogni passo e semina dolore. Per causa sua una donna viene accusata di essersi concessa ad un altro, prima dell’uomo che è in procinto di sposare e un’anziana signora perde il guadagno di un’intera giornata di lavoro. Violenta la donna di un amico e mette sul lastrico un’intera famiglia per pagare i suoi debiti di gioco. Attira su di sé tanto odio e rancore da diventare vittima di una violenta aggressione da parte di alcuni abitanti della zona. Ha il corpo coperto di lividi e il viso tumefatto. Quasi in fin di vita viene trasportato a casa della sorella. Qui riscopre il calore della famiglia grazie al rapporto con la madre morente che riassume in sé, nelle pieghe delle mani e nella purezza del suo sguardo, tutta la sofferenza di un’infanzia non vissuta e di quel bisogno di appartenenza, da tempo gridato invano.
Un cinema fatto di materia quello di Karoy, che segna il debutto di Zhanna Issabayeva come sceneggiatrice e produttrice, oltre che come regista. In esso cielo e terra si toccano silenziosi, rischiarati dai raggi dorati di un sole sempre pronto a risorgere. Paesaggi immobili e spogli, calpestati dagli zoccoli di un cavallo o dalle ruote di un carretto. Cumuli di polvere bruna, punteggiati da piccoli laghetti nei quali trovare sollievo dalla canicola estiva. Nessuna nuvola, nessun giudizio, solo lo scorrere continuo dei giorni, dall’alba al tramonto, fino all’imbrunire. La natura pura e semplice, muta testimone delle azioni dell’uomo, siano esse buone o cattive. Solo il rumore del vento a farsi strada nell’erba alta, mentre Azat continua a mentire, con il desiderio che lui stesso ignora, di appartenere a qualcuno, di sentirsi membro di una famiglia, di un gruppo. Lo spazio circostante, nella sua immensità, non lo accoglie, non gli offre alcun riparo. Dopo tanta strada però, dopo tanto dolore, una porta si apre e questa volta per invitarlo ad entrare.
È un inconsapevole viaggio verso casa, quello che intraprende Azat. Verso gli affetti e il ricongiungimento con le proprie origini, alfine (ri)trovati nel grembo materno, simbolo di quell’innocenza che solo un bambino ha dipinta negli occhi.

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