VENEZIA 68 – “Hahithalfut (The Exchange)”, di Eran Kolirin (Concorso)

the exchange

Il trentasettenne Eran Kolirin, dopo il successo del 2008 con La banda, si discosta dal suo incedere fiabesco, in cui lo straordinario innervava l’ordinario, ma ritrova, in qualche modo, quell’incedere disposto su confini inesistenti di una “free zone” immaginaria, all’interno di un dramma esistenziale nella sublimazione della staticità.Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato e per un istante gli sembra di essere entrato nella casa di uno sconosciuto…

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the exchangeSecondo lungometraggio per il regista israeliano, dopo La banda, del 2008, passato nella sezione “Un Certain Regard” di Cannes. Il trentasettenne Eran Kolirin, dopo il successo del suo esordio al lungometraggio, si discosta dal suo incedere fiabesco, in cui lo straordinario innervava l’ordinario, ma ritrova, in qualche modo, quell’incedere disposto su confini inesistenti di una “free zone” immaginaria, in un dramma esistenziale nella sublimazione della staticità. Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato, a un’ora in cui la luce la illumina da un angolo diverso e in cui il ronzio del frigorifero è l’unico suono che si riesca a sentire.
Un uomo torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato e per un istante gli sembra di essere entrato nella casa di uno sconosciuto, vuota e silenziosa in una desolata ora pomeridiana.Un uomo torna a casa e all’improvviso si accorge di cose favolose e dimenticate. Particelle di polvere che vorticano nell’aria in un bianco raggio di luce. Una vecchia etichetta del prezzo incollata sotto il tavolo. Un uomo torna a casa come un turista e osserva per la prima volta gli oggetti di cui si compone la sua vita. Il parcheggio, le scale, le cassette della posta piene di lettere.Un uomo torna a casa ed entra nella propria vita in un momento in cui non si è mai trovato, osservandola con gli occhi del bambino che era. E ancora una volta la trova colma di mistero e di magici nascondigli. I corridoi, i viottoli, le sale delle caldaie.Un uomo si trova ad assistere alla propria vita dall’esterno. Ma questa vita è davvero la sua? È davvero la vita che cercava? L’eco geopolitica difficilmente può essere ignorata: quel senso di colpa che attanaglia il protagonista, sposato con un’architetta, che vive in una zona residenziale di Tel Aviv, dottorando in Fisica, che prova a riappropriarsi di spazi, all’improvviso estranei, di terre inesorabilmente promesse. Come poi trascurare i rimandi più o meno espliciti al cinema di Michelangelo Antonioni, soprattutto nel finale da Blow-up. Ma al di la queste probabili e a volte flebili fascinazioni visive e narrative, il regista ci pare compia un passo indietro dopo il primo film, per questa sua ricerca di minimalismo cinico e a volte onirico, delle lunghe e spasmodiche sequenze, trasudanti arcaiche verita’. Kolirin cede al laboratorio meccanico che prova a vivisezionare i suoi corpi, in una trappola piazzata negli angoli o al centro, immobile e senza respiro, per mimetizzarsi e svanire un passo avanti al buio, sempre in sospeso con il tempo, quasi fuori gioco. Il regista ha affermato in conferenza stampa: “Questo non è un film su molte cose, quanto sulle cose stesse. I tavoli, le porte, le stanze, le sedie: tutti gli strani oggetti di cui si compone la nostra vita. “Strane“ non nel senso che stanno in agguato nell’ombra, o di una stranezza crepuscolare: strane di quella stranezza che è propria degli oggetti situati in piena luce. Il senso di mistero proprio della realtà delle cose, della realtà della vita”. Le sue parole ricordano Fernando Pessoa: “L’unico senso intimo delle cose e che esse non hanno alcun senso intimo”. Se il senso intimo del film fosse racchiuso in questa frase, il carico intellettualistico che pervade la messinscena detronizzerebbe quasi totalmente un’opera che in fondo fatica a respirare, pur mostrando un’idea di fondo assolutamente affascinate e nello stesso tempo terribilmente complicata. La divina irrealtà delle cose: ciò che nascondono le cose è il “perché” della loro esistenza, un “perché” che non può essere mostrato (anche cinematograficamente?) all’uomo, ma la cui domanda solleciterà per sempre la sua curiosità.        

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