Venezia 80 – L’invenzione della neve: incontro con Vittorio Moroni e Elena Gigliotti

Regista e attrice protagonista ci raccontano un film disarmante, che tenta il “controllo dell”incontrollabile”. Alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori di Venezia 80

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Presentato in anteprima alle Notti Veneziane dell’80esima Mostra d’arte cinematografica e in sala dal prossimo 14 settembre, L’invenzione della neve è il nuovo film di Vittorio Moroni (Se chiudo gli occhi non sono più qui). Abbiamo incontrato il regista e l’attrice protagonista Elena Gigliotti per parlarne più approfonditamente.

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Come nasce questo film, da dove prende ispirazione la storia di Carmen? 

V.M.: Ho preso ispirazione da un incontro reale, che ha creato in me un turbamento. Perché sentivo che le scelte che questa persona stava facendo a me sembravano discutibili, ma allo stesso tempo provavo affetto ed empatia. Queste due anime crescevano insieme dentro di me seppur in contrasto. Volevo quindi che questo film facesse la stessa cosa, convocare lo spettatore e metterlo in questa condizione, che io stesso avevo provato. È ovviamente un film complesso da realizzare e per farlo è stato necessario soprattutto riuscire a trovare un’interprete che restituisse tutto questo. Elena è riuscita addirittura a raccontarmi altro, qualcosa che neppure io conoscevo del personaggio.

Quando avete deciso di inserire le sequenze di animazione, che aiutano a dare anche un ritmo al film?

V.M.: Le animazioni sono nate con l’idea stessa del film. Anzi questo film sono 2 film. C’è la competizione tra due strade: una ci racconta come il mondo tratta Carmen, una donna che ama in modo un po’ inaccettabile e discutibile, mentre la seconda cerca di immergersi nel mondo interiore di Carmen e addirittura visualizza questo mondo. Questa favola rappresenta la speranza e anche la possibilità per lo spettatore di non aderire necessariamente a un giudizio morale sulle sue scelte, ma di percepire da dove queste scelte arrivano, anche le più discutibili.

E.G.: Le animazioni ci portano in un mondo di animali. Abbiamo lavorato su questo; sull’essere animale della protagonista. Siamo partiti dalla tigre per cercare di raccontare al meglio Carmen e anche me stessa. La favola ha il compito di portarmi nella fantasia di questo animale e per me rappresenta l’impossibile, una fantasia di sopravvivenza.

 

Non è così facile interpretare il titolo del film? Per te qual è il suo significato?

V.M.: Per me il titolo si riferisce al secondo film di cui parlavo prima. A un certo punto Carmen è costretta a trovare nella propria immaginazione l’unico orizzonte a cui tendere per potersi salvare. Per fare questo è come se da una parte Carmen si spingesse verso quella favola e al tempo stesso verso una dimensione dove la speranza rischia di flirtare con la follia. Come se affermasse possibile delle cose che il mondo al di fuori le sta urlando che non sono possibili. E cioè che il suo giardino è quella jungla del racconto e che ci si possa salvare se sopra questo giardino, in un giorno d’estate, nevicherà.

All’interno del film non è facile affrontare la questione morale che la storia ci sottopone. In che modo sono stati scritti e costruiti i personaggi del racconto?

V.M.: Non dovevano esserci maniglie a cui aggrapparsi o sicurezze. Io spero che ognuno dei personaggi sia abbastanza complicato da non lasciare sereni nel giudicare. Sì, l’assistente sociale è un personaggio per così dire buono, ma nel suo ruolo compie errori macroscopici, pur tentando di fare del bene; la rivale di Carmen, Mara, non è solo una rivale, ma una donna che ama la figlia di Carmen, che vorrebbe instaurare un certo tipo di rapporto. Nessun personaggio consente a Carmen e a noi di essere tranquilli nella nostra possibilità di giudicarli. E credo che questa rifletta la vita.

E.G.: Da un punto di vista dell’interprete io posso solo dire che ogni interprete deve difendere il proprio personaggio, non giudicarlo. Giudicare un personaggio rischia di portare l’attore al fallimento. D’altro canto non si tratta ovviamente di giustificare, di esercitare compassione, ma soprattutto di saper rendere quelle sfumature di cui quel personaggio è ricco.

Come si è costruito il rapporto regista-personaggi e come è andato a modificarsi nel corso del tempo? 

V.M.: Credo che la parola chiave sia cercare di controllare l’assenza di controllo. Io ho lavorato con due co-sceneggiatori per otto anni, quindi abbiamo super controllato il testo. È un testo molto teatrale e per questo organizzato; dentro tutto questo volevamo però liberare dell’energia, la cosiddetta verità, e per fare questo c’era bisogno che quella sceneggiatura fosse allora “solo” la mappa di un viaggio. Tanto è vero che a un certo punto mi sono sentito superato nella conoscenza del personaggio. Io parlavo con gli attori separatamente e indicavo loro alcune cose, cose vere, da cercare in ogni scena.

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