Venezia 80 – Paradise is Burning. Intervista esclusiva a Mika Gustafson
La cineasta svedese ha presentato nella sezione Orizzonti di VENEZIA80 il suo lungometraggio d’esordio. Un’opera frenetica, intensa, che non aspetta niente e nessuno. Ecco la nostra intervista
A Venezia abbiamo incontrato Mika Gustafson, cineasta svedese che ha presentato nella sezione Orizzonti la sua opera prima Paradise is Burning. Gustafson porta a Venezia un film frenetico, intenso, che non aspetta niente e nessuno. Protagoniste del racconto ambientato in un quartiere popolare della Svezia, troviamo tre sorelle (Laura, Mira e Steffi) abbandonate dai propri genitori e costrette a cavarsela da sole. Le sorelle si muovono in totale libertà senza adulti a dettare regole da rispettare. Con l’estate alle porte e l’assenza dei genitori, la vita per loro diventa selvaggia e spensierata, vivace e anarchica.
Arriva a Venezia con il tuo primo lungometraggio, quali sono le sue prime sensazioni?
Ovviamente è una sensazione incredibile, Venezia è un festival di caratura mondiale e, di conseguenza, è una cosa enorme essere qui con il mio primo lungometraggio. Poi, sai, quando lavori così tanto ad un progetto, non vedi l’ora di mostralo al pubblico. Essere arrivati qui e poterlo mostrare al mondo è una grandissima cosa, oltre che un onore.
Velocità, frenesia, litigi: il tuo è un film che non si ferma mai, si potrebbe dire un film in costante ribellione, ma anche in costante crescita, seguendo la parabola delle sue protagoniste. Credi che dove ci sia ribellione ci sia anche una crescita?
Assolutamente sì, sono pienamente d’accordo! Aggiungo soltanto che ho voluto realizzare un film che potesse parlare di come si possa imparare dalle proprie esperienze di vita.
Paradise is Burning sembra debitore di un cinema di stampo documentaristico, ma abbiamo notato anche delle incursioni all’interno di una dimensione in cui spazio e tempo sembrano perdere d’importanza ed è come se ci trovassimo nella mente della protagonista. Questa realtà della psiche ci ha ricordato molto una qualità tipica del melodramma domestico. In questo mix di suggestioni e stili cinematografici, se ci sono, a che modelli ti ispiri quotidianamente?
Qualsiasi cosa. Amo particolarmente le differenze, le diversità e avere la libertà di inserirle tutte all’interno del mio lavoro. Spesso il co-writer Alex mi diceva “questo è un film serissimo fatto da delle persone davvero sciocche…”. Il mio film parla di vita e morte, cercando di riflettere e capire cosa significa essere un essere umano. Cerchiamo di comprendere noi stessi, e chi ci circonda. Questa è la componente esistenziale del nostro lavoro ma, allo stesso, tempo bisogna anche divertire e divertirsi. Quindi, l’inizio del film dev’essere rapido, veloce, odio gli inizi lenti. A volte penso che i film dovrebbero essere come dei pezzi dei Pink Floyd, un ritmo sempre più incalzante per poi fare spazio alla quiete e allo spazio. In fondo, è tutta una questione di tempo, di stacchi. Prendo ispirazione da tantissime cose. Da Andrea Arnold che incontra Xavier Dolan, da come Tarantino prende ispirazione dalla new wave francese. Raccolgo tutto ciò che mi piace e non mi focalizzo troppo su quello che non mi piace. Mi chiedo sempre: cosa voglio vedere? Cosa mi manca in questo film? Voglio dare qualcosa al mio pubblico ma non voglio spiegarglielo, lo ritengo più che capace di interpretare ciò sto dicendo in quel momento. L’interpretazione arriverà, forse subito, forse dopo qualche mese. Comunque, in generale, cerco di prendere ispirazione da tutto quello che la vita mi regala, dalle piccole cose che vedo o dalle persone che incontro.
Ci sembra che il tuo cinema sia estremamente mimetico nei confronti delle sue protagoniste, tutta la concentrazione è su di loro, i loro volti, le loro emozioni. Che rapporto hai sviluppato con le attrici sul set, come hai lavorato con loro, a partire dal casting, per arrivare, infine, alle riprese?
Ho sognato questi personaggi per sette anni. Ho vissuto con loro, li ho amati e li amo tutt’ora. Quando, poco fa, mi ha chiesto come fosse essere qui a Venezia, ho pensato quanto fosse strano e incredibile che i personaggi che qualche mese fa avevo soltanto nella mia testa, ora siano qui. Adoro gli attori. Credo che girare un film sia soprattutto saper dirigere gli attori, creare un rapporto con loro. Per questo cerco sempre di seguirli da vicino: li ho cercati per circa dieci mesi e per i successivi quattro ho lavorato con loro attraverso dei workshop collettivi. Volevo aiutarli, farli sentire al sicuro per poter migliorare. Allo stesso tempo, però, devi essere sempre pronta ad abbracciare i loro cambiamenti, il loro spingersi oltre. E da questo lavoro, nasce uno “scambio” dove anche io riesco a crescere e a migliorare.
All’interno del film ci sembra fondamentale il concetto di “casa”. Laura passa le sue giornate ad intrufolarsi nelle case altrui e spesso distrugge lo spazio domestico che incontra, quasi ne provasse repulsione. Nel frattempo, abbiamo lunghe sequenze girate in un parco all’aperto, dove si riesce a respirare un’aria di libertà. Vorrei chiederti cos’è “casa” per te, se questo concetto si debba forzatamente inserire all’interno di un spazio chiuso?
Per me casa sono le tre sorelle, sono le persone a cui apri la porta. Ma credo che il film sia anche sull’orgoglio delle persone con cui cresci perché sono loro a renderti la persona che sei oggi. Magari non sono perfette e neanche tu lo sei ma sono comunque le tue persone. Per questo, ho inserito delle scene dove le protagoniste eseguono delle vere e proprie cerimonie. Perché festeggiano e celebrano la vita. È davvero importante celebrare le cose belle della vita, essere orgogliosi da dove si proviene ma è anche importante esplorare cose nuove. Laura desidera ritornare a casa ma per capirlo, ha bisogno di guardarsi intorno. Inoltre, mi piaceva pensare ad un personaggio che fa e prende quello che vuole, utilizzando una sorta di strategia di sopravvivenza, senza giocare mai il ruolo della vittima, prendendo, invece, un ruolo attivo nella vicenda. Per questo era necessario fornire a Laura e le sue sorelle uno strumento che permettesse loro di agire. E credo che questo strumento sia l’amore che provano l’una verso l’altra.
Il tuo film racconta un percorso di crescita da parte di tre sorelle che devono cavarsela da sole. Due in particolare, Laura e Mira si sviluppano un rapporto affettuoso con due persone adulte (Sasha e Hanna) che di contro mostrano da una parte la depressione di un uomo di mezza e età e dall’altra le ipocrisie di un modello famigliare destinato a naufragare. In che spazio si colloca, secondo te, la maturità?
Quando ho compiuto trent’anni ho realizzato che non si cresce più dopo i venticinque anni. Le sorelle nel film incontrano degli adulti che soffrono per dei motivi molto simili ai loro. Il film parla di questo incontro e di come, anche se è possibile imparare dalle proprie sofferenze, queste poi rimangono. È una storia collettiva, dove tutti i personaggi, giovani e adulti, soffrono ma cercano di farsi forza l’uno con l’altro, anche se, a volte, è davvero dura. Credo che la vita sia proprio questo. Il tempo passa, prima o poi moriremo tutti e non ci possiamo fare molto, se non cercare di amare e di renderci conto di quanto, in fin dei conti, siamo tutti molto simili.
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