VIDEO – "L'occhio che ama" – Incontro con Anna Negri

nna Negri Anna Negri parla della genesi del suo ultimo film e delle esigenze artistiche che l’hanno spinta a raccontare una nuova storia di precarietà economica e sentimentale. Attraverso lo sguardo costante di una troupe che riprende la vita dei due protagonisti la regista cerca di portare alla luce le problematiche dei trentenni di oggi.

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Come è nata l’idea di questo film?
 
Anna Negri – Avevo due esigenze: la prima era quella di raccontare una separazione dovuta alla crisi che spesso investe una coppia dopo la nascita di un bambino, adottando però un punto di vista femminile, a differenza di quello abituale maschile. La seconda era di vincere la scommessa di un film a basso costo che mi permettesse di tornare al cinema dopo otto anni attraverso una storia intima, ma con risonanze universali che si prestava bene a questo tipo di operazione. Volevo fare un film molto più libero di quanto non avessi fatto in passato, lavorando per il cinema e soprattutto per la televisione, un film dove gli attori fossero liberi di recitare e venissero filmati senza che il flusso della loro recitazione venisse mai interrotto. Ho inventato perciò la presenza in scena costante di una troupe che filmava la tragicommedia della separazione con uno stile di ripresa documentaristico che mi dava la possibilità di non spezzare il racconto.
 
Ci sono film che hanno influenzato le sue scelte registiche?
 
AN – C’è un film di Michael Powell, Peeping Tom (L’occhio che uccide), che potrebbe essere l’esatto opposto di Riprendimi, che in un certo senso mostra un occhio che ama, che è il voyeurismo dal punto di vista femminile.
 
Che cosa le interessava raccontare in questa storia?
 
AN – La condizione di disagio e di malessere dei trentenni di oggi e le varie ripercussioni nella vita. I due documentaristi intuiscono che la separazione dei due giovani di cui raccontano le giornate è sintomatica di una precarietà più generale perché tutto viene condizionato dalla mancanza di un’autonomia economica assicurata. Questo non colpisce solo le classi basse, c’è anche un’intera classe media distrutta da un precariato diffuso che non dà possibilità di programmare la vita personale e familiare; è stata rimossa e cancellata la capacità di vedere collettivamente la vita, ci si richiude nell'individualismo a tutti i livelli, c’è un malessere sociale trasformato in un'ossessione per i problemi personali.
 
Che cosa l’ha spinta a produrre questo film?
 
Francesca Neri – Il fatto che si trattasse di una vicenda “al femminile”: il momento dell’abbandono è stato raccontato tante volte al cinema, ma poco dal punto di vista di una donna. Mi è sembrata poi una buona idea l’associazione mentale “precari nel lavoro = precari nell’anima” e anche quella del documentario che accompagna dal vivo l’evolversi delle vicende e che diventa, anche da un punto di vista cinematografico, l’invenzione di un linguaggio nuovo.

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