ZEBRA CROSSING. Biennale 2021 – I Giardini del non visibile

Uno sguardo ad alcuni Padiglioni Nazionali presso i Giardini della Biennale in occasione della Biennale di Architettura 2021. Il non visibile come spunto di riflessione

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Dopo il lungo periodo pandemico siamo finalmente tornati ad un evento in presenza: la Biennale di Architettura 2021 a Venezia. Riapparsa sui radar di operatori e giornalisti culturali dopo un’assenza di tre anni, a causa dell’annus horribilis 2020, il quale ha fatto slittare di un anno le varie biennali veneziane, la Biennale di Architettura 2021 è stata curata dall’architetto libanese Hashim Sarkis. Egli ha posto ai padiglioni nazionali e agli studi privati una domanda formulata ancor prima dell’inizio della pandemia: “how will we live together?”. Domanda ancora più attuale oggi, in un mondo che per necessità ha accelerato le proprie dinamiche verso il distanziamento sociale e che forse ha deviato verso un futuro caratterizzato da un diverso grado di empatia.

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La mostra è stata divisa in 5 aree, dette scale, che possono essere elencate in questo modo:
– how will we live together amongst diverse beings?
– how will we live together as new households?
– how will we live together as emerging communities?
– how will we live together across borders?
– how will we live together as one planet?

Le prime tre domande sono state sviluppate negli spazi dell’Arsenale, le ultime due invece presso il Padiglione Centrale dei Giardini. Subito intravediamo in esse una specie di movimento cinematografico ad allargare, che va dalla sfera di coppia (approssimando) alla dimensione domestica, alla comunità, al rapporto tra comunità divise da confini, al genere umano sullo stesso pianeta.

Prima di addentrarci è bene dire che i Giardini sono il luogo della Biennale dove lungo tutto il 900 si sono creati quei padiglioni nazionali, veri luoghi extraterritoriali, che di fatto rappresentano la riflessione sull’arte o sull’architettura del paese in questione. Il primo padiglione aperto fu quello del Belgio nel 1907. Molti padiglioni sono presenti ai Giardini come strutture a sé stanti, ma altri usufruiscono di spazi o all’Arsenale o fuori dalle due sedi classiche della Biennale. A differenza degli studi privati i Padiglioni sono liberi di decidere se presentare lavori in linea con l’idea della mostra o meno. L’esplorazione fisica dei Giardini diventa comunque un modo per viaggiare da un paese all’altro all’interno di una bolla spaziotemporale ben definita.

Adottando un’ottica prosaica, potremmo anche vedere i Giardini della Biennale veramente come un luna park i cui padiglioni sono le attrazioni. In questo modo una riflessione sul contenuto diventa meno importante. Anzi risalterebbe un diverso tipo di fruizione, più “esplorativo”, capace di muoversi dentro i Giardini seguendo la mappa scaricata dal sito della Biennale che diventa una nostra mappa mentale, intuitiva, magari dispersiva ma più libera.

L’esplorazione del non visibile
Una delle prime cose che viene da pensare è radicalmente legata alla pandemia. Abbiamo spesso analizzato il fuoricampo della pandemia in varie sfaccettature, ed è infatti possibile “vedere” tale fuoricampo anche in questa Biennale 2021. Vari padiglioni (Australia e Canada per esempio) non hanno potuto allestire nulla ma sono rimasti chiusi, dando quindi un codice QR per poter fruire online della loro idea. Altri padiglioni hanno allestito in modo sensibilmente toccato dal virus, dando luogo ad un rimando fortissimo ancora presente (il virus non ancora sconfitto) e mostrando i contorni di una visione che il virus non permette di porre al centro dello schermo.

La Germania presenta “2038”, un padiglione vuoto che non è veramente vuoto, perché riempito anzi di codici QR per darci la possibilità di fruire questo spazio in modo che non sia fisico. Esplorando il vuoto, e guardando pareti bianche, possiamo attivare i vari video preparati dal collettivo 2038, il quale immagina di parlare del 2020 e della pandemia da un futuro che vede il nostro presente già superato e risolto. L’architettura quindi non solo come costruzione di spazi ma anche costruzione di un immaginario che prova a dare soluzioni.

“2038” from Zebra Crossing Webzine on Vimeo.

La Corea del Sud presenta “Future School”, una vera e propria scuola da allestire durante i mesi della Biennale. La curatrice Hae-Won Shin avrebbe voluto avere degli “studenti” a fruire la scuola e le sue strutture aperte, ma l’idea di avere una scuola viva e operante in diretta è stata purtroppo deformata dalla pandemia, ed è stato solo possibile allestire gli spazi. Possiamo quindi solo immaginare cosa sarebbe stato. Da questo “fuoricampo” arriva comunque un’idea di condivisione dello spazio come “incubatore per un pensiero radicale” o “luogo di incontro per scambio e di idee e progetti che attivamente esplorino la nozione di costruzione di un futuro migliore”. La nostra esplorazione viene sicuramente ammaliata da questa prospettiva educativa in fieri e in vitro.

Il Giappone, come la Corea, vede il suo progetto “Co-ownership of Action: Trajectories of Elements” non poter essere presentato nel modo pianificato. Quindi adotta una soluzione talmente bella e geniale che eleva immediatamente tutto ad un livello più alto. L’idea era di ricostruire una casa giapponese dentro il padiglione, non esattamente identica ma trasformandola in qualcosa che sposasse il nuovo ambiente. Per farlo la casa è stata divisa in più parti. A causa del Covid la ricostruzione non è stata possibile, e alcuni materiali sono stati sostituiti con materiali trovati in loco. Tutto è stato coordinato online durante la pandemia. Fino al punto di riempire il padiglione di fila ordinate di elementi dando volontariamente meno informazioni testuali possibili. Il significato totale differisce anche solo per il fatto che non si vuole pedissequamente seguire l’originale, ma ridare una nuova prospettiva. Il totale ridato è veramente più della somma delle parti. Il nostro occhio resta rapito dall’ordine dato ai pezzi di questa casa smontata e presentata come fosse possibile ricomporla seguendo delle istruzioni dettagliate. La bellezza del design giapponese ne esce come una vera vertigine, fatta di frammenti per il tutto, in modo tale per cui sono i nostri occhi a montare la casa.

Israele invece presenta “Land Milk Honey” che solo apparentemente si discosta dalla futuristica domanda iniziale per focalizzarsi invece sul presente dello sfruttamento intensivo delle falde acquifere del proprio territorio. Ora in Israele la terra di cui un tempo si prometteva “latte e miele” viene sistematicamente modificata. Al di là dell’attenzione su cinque animali come metafora di cinque processi (mucche, capre, api, bufali d’acqua e pipistrelli rispettivamente per meccanizzazione; territorio; coabitazione; estinzione e post-umano) è potente l’idea di porre animali estinti e imbalsamati, ossa di animali, ossa di un’abitante preistorica della regione insieme a quelle del suo cagnolino, e animali in formaldeide, su pedane elettriche automatizzate che escono senza soluzione di continuità da un grande frigorifero di acciaio come fossero cadaveri di un obitorio. Vediamo quel passato oggi non più visibile perché abbiamo distrutto le prerogative. Il curatore infatti ci chiede se non sia il caso di rallentare l’intensità con cui Israele sta creando una pianura verde dal deserto, ponendoci dubbi su un progresso a breve termine tecnicamente pregevole ma di cui i risultati possono essere nefasti in futuro.

“Land. Milk. Honey.” from Zebra Crossing Webzine on Vimeo.

Al centro non v’è nulla
Il non visibile quindi ci pare una cifra importante da seguire in questa Biennale. L’Austria con “Platform” ragiona sull’impatto delle piattaforme digitali sull’architettura e lo sviluppo urbano contemporanei, trasformando lo stesso padiglione in una piattaforma interattiva con slogan provocativi tipo “the platform is my boyfriend”. Taiwan con “Primitive Migration from/to Taiwan” crea un improvviso salto nel buio della giungla, mostrando la affascinante fragilità di una casa che fa sia da scudo che da portale ad un luogo come la foresta pluviale. L’Irlanda presenta “Entanglement”, struttura che ci sgomenta per come “inscena il crollo delle reti di infrastrutture dati su scala locale e planetaria” facendo anche ragionare su come Dublino oggi superi pure Londra come hub di data center d’Europa. La Spagna presenta “Uncertainty” riguardo l’incertezza come soluzione ottimistica a problemi complessi, partendo da una rappresentazione della volatilità del precariato (la straordinaria nuvola di CV della prima sala).

Vediamo quindi l’assenza di un contatto umano sostituito dal digitale, il buio della Natura più selvaggia di cui debolmente delineiamo i contorni da dentro un guscio, il silenzio dopo un crollo informatico su scala planetaria e il vuoto di certezze lavorative come aleatorietà dell’esistenza. Le soluzioni che abbiamo visto sono sempre suggerite. Sicuramente la nostra mente grazie o a causa del virus ha dovuto fare un ulteriore salto verso l’immaginazione di risposte a problemi nuovi. Ma l’esplorazione non porta risposte, dato che è la risposta. Alla fine siamo consci di aver seguito una mappa in cui le sensazioni erano altrettanto importanti delle riflessioni, e il contorno sia più centrale del resto. L’analisi della mostra vera e propria nel prossimo articolo di Zebra Crossing ci confermerà questo assunto.

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